Alla fine Carlo Calenda si chiude fino a tardi in un insolito mutismo. Gli viene chiesto di fare buon viso a cattiva sorte. Il giorno prima ha twittato il twittabile, minacciato il minacciabile, irradiato nei cellulari dei dem più alti in grado la sua intenzione di rimangiarsi il patto di programma se nell’alleanza, a qualsiasi titolo, entreranno anche i rossoverdi. Come se il leader di Azione non avesse saputo dall’inizio le intenzioni di Enrico Letta.

Ha fatto uno sbarramento di fuoco preventivo. Risultato: anziché vantare una vittoria – i rossoverdi saranno alleati solo elettorali, il patto di programma è quello fra Pd e Azione e Più Europa – si è cacciato nella parte del perdente. Ma non può rompere. Pesa (molto) l’opinione di Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi. Per il “patto repubblicano” – che si riunisce a sera – a questo punto correre in solitaria significherebbe rimangiarsi le belle parole di un paese che deve fare «una scelta di campo tra i grandi paesi europei e un’Italia alleata con Orbán e Putin», come recita l’accordo siglato con il Pd. I cronisti però compulsano twitter: con Calenda non si sa mai. Fino a sera resta solo una sua battuta sarcastica all’indirizzo di Letta, che accusa di «non decidersi» fra lui e loro: «Almeno loro sono chiari», il riferimento è al programma di Sinistra italiana che chiede il reddito di cittadinanza e dice no alle energie fossili. In molti cellulari restano i suoi whatsapp: alcuni annunciano la rottura, altri la negano.

Quando alla fine della conferenza stampa di Letta con i vertici rossoverdi, un cronista chiede se ha sentito Calenda, il segretario Pd è cauto: «La giornata è ancora lunga». Già fin lì, e sono solo le cinque e mezza, la giornata è stata lunghissima. La mattina Sinistra italiana ha riunito l’assemblea nazionale. La mozione che dà mandato al segretario di confermare la lista con Europa verde, di «verificare la possibilità di stringere un accordo con il Pd sui collegi uninominali», e di «garantire al partito totale autonomia su programma e prospettiva politica», perde pezzi ma passa con il 61 per cento. Luciana Castellina, grande madre della sinistra, stavolta si schiera per il no. Per il segretario Nicola Fratoianni è un colpo duro.

«Non di governo»

Scarpe rotte eppur bisogna andare, direbbero i nipoti di Fausto Bertinotti e figliocci di Nichi Vendola. Così fanno: Fratoianni e Angelo Bonelli, con la presidente di Europa verde Fiorella Zabatta, salgono al terzo piano del Nazareno e concordano con il leader Pd il testo di un «accordo» solo «elettorale». Lo presentano alla stampa. La scena ricorda quella dell’accordo con Azione e Più Europa, che però era «programmatico». I tre sorvegliano le parole: «Siamo consapevoli delle profonde differenze fra noi», dice Letta, ma «questo non è un accordo di governo, vogliamo difendere la Costituzione e la democrazia, per effetto di questa legge e della torsione maggioritaria la destra può arrivare ad avere il 66 per cento in parlamento anche prendendo il 40». Le forze al tavolo «hanno avuto un atteggiamento diverso rispetto al governo Draghi» (e anche in politica estera, Si ha votato contro l’allargamento della Nato a Svezia e Finlandia» ma l’accordo «si basa sul principio del riconoscimento dell'emergenza democratica». Dal canto loro Fratoianni e Bonelli assicurano che «da oggi si cambia fase», «è il momento della responsabilità». Il testo sottoscritto parla di diritti civili e ius culturae, di contrasto a «ogni tentativo di alimentare le disuguaglianze tra territori», allusione non esplicita all’autonomia differenziata (nel Pd c’è chi è d’accordo), di energie rinnovabili ed è citato il comune no «all’inserimento di gas e del nucleare nella tassonomia europea».

C’è anche un capitolo sui numeri dei collegi uninominali: proporzione 80 a 20, «scomputando le candidature per le altre forze in coalizione». Con Calenda era 70 a 30. «Non c’è contraddizione», dice Letta. Finisce con il 60 per cento dei collegi al Pd, il 25 ad Azione, il 15 ai rossoverdi. Come non c’è contraddizione fra i due accordi, i programmi sono autonomi. Se poi a questo schieramento toccasse il miracolo di governare, si siederanno a un tavolo e ragioneranno: «Ogni giorno ha la sua pena», sospira Fratoianni.

Per Letta è quella di chiudersi in una nuova riunione con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci. La loro lista ci sarà, c’è l’accordo sugli uninominali, ma i dettagli restano nella nebbia. Per Fratoianni le pene al giorno sono più di una: mentre è in conferenza stampa la minoranza del suo partito, che pesa per il 31,8 per cento, reclama la consultazione degli iscritti. Anche da questo lato non c’è pace. Dal lato di Calenda è un giorno di stallo e quasi silenzio. Almeno fino al prossimo tweet.

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