In tempi di campagna elettorale è inevitabile che qualsiasi argomento possa essere utilizzato a scopi propagandistici. Persino i morti del Covid.

Il microbiologo Andrea Crisanti, fresco candidato del Pd, ospite il 19 agosto alla trasmissione in Onda, su La 7, ha affermato: «Con Salvini senza lockdown avremmo avuto 300mila morti in più a causa del Covid. Se noi non avessimo applicato immediatamente il lockdown l’8 di marzo avremmo avuto molti più morti. E non ho sparato a caso: modelli matematici prevedono che se non avessimo implementato quelle misure i morti sarebbero stati il doppio. Gli stessi modelli matematici prevedono che se quelle misure fossero state applicate una settimana prima probabilmente i morti sarebbe stato in terzo in meno».

E Matteo Salvini, parlando al Festival la Versiliana ha controbattuto: «I giornalisti mi chiedono cosa rispondo al televirologo Andrea Crisanti che ha detto che se io fossi stato al governo ci sarebbero stati migliaia di morti di Covid? Io non rispondo a chi usa i morti di Covid come merce elettorale».

Stavolta Crisanti sbaglia. Se all’inizio del 2020 non avessimo adottato un rigido lockdown i morti in Italia sarebbero stati molti di più, trecentomila e oltre, è vero. Ma se c’è stato un ritardo non è colpa di Salvini. Bisogna ritornare con la mente a quei giorni.

I primi passi

A fine dicembre 2019, l’Organizzazione mondiale della sanità avvertì: a Wuhan, in Cina, è scoppiata un’epidemia provocata da un nuovo coronavirus che causa una polmonite mortale, il contagio potrebbe diffondersi ovunque.

Ora fate attenzione alle date: il primo caso di Covid viene identificato negli Stati Uniti il 19 gennaio 2020, in Germania il 27, in Inghilterra il 29 dello stesso mese. In quei paesi, le autorità sanitarie mettono subito quei pazienti in isolamento, a casa.

In Italia non accadde nulla, bisogna arrivare a metà febbraio. Il signor Mattia Maestri si ammala, pensa sia una brutta influenza, va al pronto soccorso di Codogno, il paese dove vive, e qui lo visitano e gli dicono: «E’ solo un’influenza, torni a casa».

A casa peggiora, ritorna al pronto soccorso. «Sto male, non respiro», dice. Lo ricoverano in mezzo ad anziani e malati, non in isolamento, e contagia tutti. Qualche giorno dopo una giovane anestesista, Annalisa Malara ordina di eseguire un tampone, che sarebbe proibito perché Mattia non è stato in Cina, ma glielo fanno e risulta positivo: è il 21 febbraio 2020.

Un mese dopo rispetto agli altri paesi. In quel mese, quanti Mattia Maestri c’erano, non diagnosticati, in Italia? Un numero enorme: e ce ne siamo resi conto quasi per caso.

Per scoprire se Mattia Maestri aveva contagiato altre persone, la regione Lombardia inviò subito alcuni medici ed epidemiologi a Codogno, che fecero il tampone a tutti quelli che sicuramente erano entrati in contatto con lui: erano quasi tutti positivi, come si aspettavano, e li isolarono.

Poi però, per verificare che il contagio non si fosse diffuso, fecero i tamponi anche ad altri abitanti di Codogno con sintomi influenzali e non entrati in contatto con Mattia, e con loro grande sorpresa si resero conto che anche molti di loro erano positivi al coronavirus. Capirono che anche questi erano malati di Covid, e si spaventarono: Codogno venne dichiarata zona rossa.

Decisero di allargare la ricerca, andarono in giro a fare tamponi a pazienti con sintomi influenzali affini – febbre e polmonite – ricoverati nei vari ospedali della Lombardia, e scoprirono positivi ovunque.

Retrodatazione

In pochi giorni, in Lombardia trovarono 5.830 individui infettati dal coronavirus, ma ce n’erano sicuramente molti di più. Gli scienziati furono presi dal panico: il virus era già dappertutto.

Quei dati significavano due cose: che Mattia Maestri non era il paziente zero, e che il coronavirus era entrato in Italia già da tanto ed aveva avuto molto tempo per replicarsi e diffondersi.

Ma da quando? Gli scienziati indagarono, e così trovarono che il primo paziente positivo al coronavirus era presente in Italia il 1° gennaio 2020, una scoperta terribile con conseguenze disastrose.

Il coronavirus segue leggi matematiche semplicissime: il virus che si stava propagando a quel tempo, la cosiddetta variante Wuhan 1, aveva un R0 uguale a 2 e un tempo di raddoppio di circa 3 giorni, il che significa che ogni infetto contagiava in media 2 altri individui, e che questi casi raddoppiavano circa ogni 3 giorni, se non si faceva nulla.

Erano i primi di marzo 2020. Se il Sars-CoV-2 era presente in Italia dal 1° gennaio, aveva avuto 60 giorni circa per moltiplicarsi e diffondersi, e visto che si raddoppiava ogni 3 giorni aveva potuto farlo circa 20 volte.

Ma allora, il primo marzo ci doveva essere 1 milione di persone contagiate dal coronavirus in giro. E invece, in una conferenza stampa tenuta il 23 febbraio, l’assessore al welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, aveva comunicato i dati ufficiali: fino a quel momento i casi di Covid in regione erano stati 112. Solo un centinaio di malati ufficiali, e un milione di malati stimati in giro.

Gli epidemiologi della regione Lombardia, terrorizzati, lanciarono l’allarme e avvisarono il governatore. Attilio Fontana. In un articolo che poi hanno voluto pubblicare online, come per dire “noi sapevamo ma non ci hanno ascoltato”, dal titolo “Le prima fasi dell’epidemia di Covid in Lombardia”, scrivono: «L’epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020. Al momento del rilevamento del primo caso di COVID-19 l’epidemia si era già diffusa ampiamente nella maggior parte dei comuni della Lombardia.

Già il 2 marzo i tecnici avevano avvisato le autorità regionali e nazionali chiedendo di chiudere tutta la Lombardia. Nessuno fece nulla.

Si arriva all’8 marzo. Aspettare un giorno in più in quel momento non è come aspettare un giorno in più all’inizio del contagio. In 6 giorni, il virus raddoppia altre due volte. 1 milione, che raddoppiato fa 2 milioni, che raddoppiati fanno 4 milioni di infetti.  Su 4 milioni infetti, si potevano prevedere 40.000 morti, giacché, studiando le epidemie in corso, si era capito che su ogni 100 infetti di Covid 1 o 2 morivano, soprattutto gli anziani.

Migliaia di persone arrivavano negli ospedali del Nord, e a quel punto si sapeva che non erano malati di una brutta influenza ma di Covid. La gente cominciava a morire. Quindi, l’8 marzo sapevamo che c’erano in giro 4 milioni di infetti, e che alla fine ci sarebbero stati 40.000 morti: ma se solo avessimo aspettato 3 giorni in più, i morti sarebbero stati 80.000, e altri 3 giorni dopo 160mila. Chiudere tutto era necessario.

Lockdown

La sera del 9 marzo, Conte annunciò il lockdown nazionale. Non avevamo scelta: il lockdown era l’unica misura che poteva arrestare l’epidemia in Italia. E forse l’abbiamo fatto in ritardo.

A quell’epoca, l’Italia era retta dal governo giallorosso, guidato da Giuseppe Conte. Se al governo ci fosse stato Salvini, avrebbe adottato una misura così restrittiva come il lockdown?

Probabilmente sì, perché, al contrario di quel che sostiene Crisanti, Salvini era uno dei più strenui fautori del lockdown. Il 9 marzo Salvini aveva twittato: «Serve mettere in sicurezza il paese estendendo le misure di emergenza sanitaria a tutto il territorio nazionale. La salute degli italiani viene prima di tutto».

 E aveva anche detto: «Momenti eccezionali richiedono scelte eccezionali, e visti i 9mila contagi toccati serve applicare le misure più restrittive per persone e attività a tutto il territorio nazionale senza distinzione». E il 12 marzo aveva twittato: «Chiudere tutto, ma sul serio».

Bisogna tenere bene a mente che in quei giorni il distanziamento sociale, le mascherine o il lockdown erano gli unici mezzo disponibile per contenere l’epidemia e salvare molte vite. Perciò, come sostiene Crisanti, senza il lockdown i morti sarebbero stati trecentomila o forse più, ma se ci furono ritardi nell’introdurlo la colpa non fu di Salvini.

È vero, molti dentro la destra italiana anche allora pensavano che i lockdown fossero inutili, e ritenevano che in Italia si dovessero adottare le strategie sanitarie messe in atto dal governo del conservatore Boris Johnson in Inghilterra, e dal presidente repubblicano Donald Trump negli Usa. 

Purtroppo si sbagliavano entrambi: lasciar correre il virus rischiava di provocare centinaia di migliaia di morti, e quindi sia il governo inglese che quello americano in seguito hanno dovuto introdurre restrizioni più o meno marcate.

In realtà, persone che ritengono che il Covid sia poco più che una banale influenza e che perciò i lockdown siano inutili si trovano in quasi tutti i partiti. È un accanito oppositore del lockdown Claudio Borghi, illustre esponente della Lega.

Critici delle misure restrittive sono molti deputati e senatori dei Cinque stelle. Contro i lockdown sono molti membri del movimento Fratelli d’Italia. E l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti, quando già Codogno era stata dichiarata zona rossa e il contagio aveva iniziato a diffondersi, il 27 febbraio 2020 per invitare tutti a stare tranquilli era andato a brindare in mezzo alla folla dei Navigli, a Milano.

Ma aveva sottovalutato il pericolo, e quell’aperitivo gli era costato caro: due giorni dopo era positivo al coronavirus. Anche il senatore Matteo Renzi, a inizio pandemia, non era troppo favorevole al lockdown, se già il 28 marzo 2020 sosteneva: «Riapriamo. Perché non possiamo aspettare che tutto passi. Perché se restiamo chiusi la gente morirà di fame. Perché la strada sarà una sola: convivere due anni con il virus. Bisogna riaprire le fabbriche prima di Pasqua e le scuole il 5 maggio».

Se l’avessimo fatto, allora sì che ci sarebbero stati molte migliaia di morti in più.

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