Moltissimo è stato scritto sulle incoerenze dei politici populisti. L’ultimo episodio di una lunga serie è la scelta di Giorgia Meloni di portare sua figlia con sé al G20 di Bali.

Molti hanno rilevato la contraddizione meloniana: ha da un lato usato il suo essere madre come arma mediatica per la costruzione della sua figura, dall’altro ha chiesto di non mettere sua figlia al centro dello scontro politico. Ma è anche stato fatto notare che questa doppiezza non scalfisce l’appeal dei populisti.

Dai divorziati che guidano i cortei dei family day, all’ostentazione di un cattolicesimo tradizionale di facciata, l’incoerenza esibita è stata la cifra della destra berlusconiana (e non solo).

Negli ultimi decenni l’accusa di incoerenza non ha scalfito di per sé i populisti, mentre ha incrinato la difficoltosa costruzione l’immagine dei leader di centrosinistra.  L’onnipresenza mediatica di questo fenomeno è stata spiegata dicendo che si tratta, appunto, di una cosa tipicamente populista. Una tautologia tanto ovvia quanto poco esplicativa.

Per capire perché questo avvenga non basta richiamarsi alla capacità manipolatoria dei populisti. È necessario invece andare al fondo della psicologia sociale che ne è alla base.

Il legame di fiducia

Si è giustamente detto che il perno del funzionamento del populismo sta nella capacità di far identificare gli elettori con l’immagine del leader. Creando l’apparenza di leader uguali ai propri elettori (Meloni outsider, Salvini onnivoro con le felpe alle sagre, ma anche Berlusconi padre di famiglia che difende i propri interessi), gli elettori confidano nel leader populista perché vi si rispecchiano.

Questo meccanismo di identificazione è la base della creazione di una fiducia che fa a meno dei passaggi intermedi.

In quest’ottica, di fronte all’accusa di incoerenza, il leader populista può tranquillamente evitare di scusarsi e contrattacca rivendicando la propria libertà di seguire il proprio standard.

Agli occhi dell’elettore questa esibizione di incoerenza non sembra un ingiusto privilegio del potente proprio perché l’elettore si è identificato con il leader.

Trovandolo uguale a se stesso, deve perdonarne le incoerenze per autoassolversi.

Si tratta di un meccanismo difensivo primario: anche senza aspirare a diventare come il potente che può permettersi di fare quello che vuole, il sostenitore del populista difende le incoerenze del leader per difendere le proprie.

È questo uno dei motivi, legati alla psicologia profonda della politica più che ai programmi elettorali, per cui negli ultimi anni il populismo di destra ha avuto una curvatura paradossalmente libertaria.

Un libertarismo molto parziale e strumentale. Per lo più economico, ma anche legato a un doppio standard: permissivo con i potenti e feroce con gli svantaggiati, ma di certo diverso dal conservatorismo vecchio stile. Un libertarismo non di principio e che in Italia si esprime con la politica dei condoni (verso le tasse e verso tutte le piccole e grandi violazioni delle leggi).  

Non è facile capire come uscirne. Trovare rappresentanti politici pienamente integri, ma anche scalfire la logica del votare la persona che più mi assomiglia, sono azioni che richiedono tanto lavoro e tempo. Intanto, si potrà assistere alla crescita e alla probabile caduta di una leader apparentemente immune dall’accusa di incoerenza.

Immunità che vale solo quando si è sulla cresta dell’onda. Al volgere delle fortune, l’identificazione smette di funzionare e le incoerenze ritornano ad essere tali. Chiedere a Salvini.  

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