Lunedì notte uno straccio di soluzione alla crisi di governo c’era: gli sherpa di Pd, Iv e Palazzo Chigi stavano trattando su un’ipotesi di nuovo esecutivo. Le caselle erano ancora tutte per aria, restava l’incognita dell’autorità delegata dei servizi segreti, ma già la disponibilità del presidente Giuseppe Conte veniva considerata un segno di buona volontà. Ieri mattina invece arriva il nuovo rilancio di Matteo Renzi: nella sua eNews, non pago delle molte conversazioni concesse ai giornali, si autointervista per ribadire le sue ragioni. Si fa le domande e si dà le risposte. E in coda il veleno: «Se qualcuno davvero immagina che abbiamo fatto tutto questo baccano per prendere un ministero in più, quel qualcuno deve farsi vedere. Da uno bravo».

L’accordo dunque non c’è, per ora. Ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha dato gli ultimi ritocchi al nuovo Recovery plan, integrandolo con le richieste dei partiti (e molte delle 61 proposte di Iv) e irrobustendolo con l’abbinamento ai fondi strutturali. Entro stamattina il piano sarà nelle mani di Conte che presto, non molto oltre domani, lo porterà in Consiglio dei ministri. Lì le ministre Iv Teresa Bellanova ed Elena Bonetti dovranno dare il segnale: se approvarlo o dimettersi, e aprire la crisi. I parlamentari renziani sono in maggioranza per l’accordo, ma «Conte deve ballare fino all’ultimo secondo». Ci sono bisticci fra Maria Elena Boschi e Ettore Rosato, i due possibili (alternativi) ingressi nel Conte ter. A loro cederebbero il posto le ministre dimissionarie, che pagherebbero a caro prezzo la lealtà al leader.

Prima le dimissioni

Per ora Renzi è fermo sulla richiesta dello scalpo di Conte (ma nell’autointervista non lo dice): vuole che il premier salga dimissionario al Colle e che la nuova intesa di maggioranza venga siglata solo dopo. Conte non si fida. Anche perché Renzi fa anche circolare che dirà no al Conte ter. Il premier vuole una crisi pilotata, dimissioni blindate da un accordo, per evitare sorprese ad una delle tante curve della strada, breve ma pericolosissima, fra Colle e palazzo Madama. Le consultazioni sono considerate inevitabili. Al Quirinale è partita la macchina organizzativa, e non senza problemi: per le misure anti Covid ma anche perché la sala destinata ai cronisti ha lavori in corso. Durante le consultazioni, dunque, solo un accordo di ferro può garantire che ogni delegazione indichi Conte come premier.

Renzi invece vuole che Conte beva l’amaro calice della sfida lanciata il 30 dicembre dalla conferenza stampa di fine anno: «Il passaggio parlamentare è fondamentale», aveva detto. «Lo aspettiamo in Senato», è l’ultima replica, «E se i responsabili di Lady Mastella sosterranno questo governo al posto nostro noi non grideremo allo scandalo ma rispetteremo la democrazia parlamentare». Sandra Lonardo, moglie di Clemente, che fu pilastro destro del secondo governo Prodi (e che poi, coincidenza, lo fece cadere), lo accusa di maschilismo. Ma Renzi non se ne cura: è certo che senza Iv Conte non ha i numeri. La pattuglia di Giovanni Toti è disponibile solo a un governo «di salute pubblica».

Lo stallo è palpabile. Renzi è ciarliero, la maggioranza muta. Ci prova ancora Goffredo Bettini, instancabile mediatore del Pd, dato in entrata nel governo: «Le asprezze non sono venute da Conte e possono essere ricomposte con un patto di legislatura, se le critiche non sono strumentali ma concrete», dice al Tg2. Ma nel frattempo si ingarbuglia anche il resto. Il Pd litiga con Conte e la ministra Azzolina per il rinvio dell’inizio delle scuole il 15 gennaio, l’intesa si trova sull’11, poi le regioni andranno in ordine sparso. E il Lazio, il più virtuoso nelle vaccinazioni, apre un fronte contro il commissario Arcuri. L’assessore alla sanità Alessio D’Amato denuncia ritardi nelle consegne: è arrivato solo il 40 per cento delle dosi attese.

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