«Stop, stop, stooop», letteralmente «stop ai motori». Mercoledì scorso, in una riunione riservata, il segretario del Pd Enrico Letta ha dovuto fare come un regista di fronte a una scena tutta sbagliata. Il film è la regione Lazio del dopo Zingaretti. Gli attori gli sembrano presi dalla «bagarre», quella vertigine che lo scrittore Gianni Celati descrive a Italo Calvino: «Quando tutti si picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si confondono, il mondo si mostra per quello che è, cioè isterico e paranoico, e insomma si ha l’effetto dell’impazzimento generale».

Il plot è noto: si vota nella primavera del 2023. La destra è in confusione ma per vincere bisogna prepararsi per tempo. Ci sono tre aspiranti alla corsa per la presidenza. Due sono dichiarati: il primo è l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato, già pupillo di Zingaretti; il secondo Daniele Leodori, assessore al Bilancio e suo vice (e da tempo uomo-macchina della regione). Epperò Zingaretti, che pure dice di restare fuori dalla contesa perché è e resta il capo di tutta la giunta, ne preferisce un terzo, Enrico Gasbarra, ex tante cose ma oggi dirigente di Telecom Sparkle, gruppo Tim. Gasbarra non si è fatto avanti apertamente. Ma i titoli delle cronache romane sono per lui, e si capisce perché: è sostenuto da una serie di big, da Goffredo Bettini (anche lui ha giurato di non occuparsi più di Roma), a Massimiliano Smeriglio, ala sinistra della compagnia. Fino a Claudio Mancini, uomo forte del sindaco Roberto Gualtieri. Chi sta con Gasbarra è contro le primarie, nelle quali il favorito è Leodori, giovane centravanti della sempiterna filiera ex dc di Areadem di Dario Franceschini, che nel Lazio ha il potente segretario regionale Bruno Astorre. Quest’area, per ovvie ragioni, non intende rinunciare al trampolino dei gazebo. «Non molla» è anche quello che riferiscono gli amici di D’Amato, che ha l’appoggio di Carlo Calenda e il favore di un sondaggio di Alessandra Ghisleri che ha molto colpito Letta.

Conti in sospeso

Solo che le primarie, in questo clima, rischiano di trasformarsi in un congresso del Pd regionale, dove le correnti e le presunte non correnti si pesano e se le danno di santa ragione; e poi chi sopravvive perde le elezioni. Ma attenzione: non è una questione solo laziale, nel senso della regione. Sotto la crosta della pax lettiana covano conti ancora in sospeso.

L’hanno capito bene il 3 luglio quelli che a Cortona hanno ascoltato Franceschini dal palco dell’assemblea di Areadem: «Se le correnti sono i luoghi in cui si pensa e discute, ci si aggrega intorno alle idee e alle leadership, allora sono il bene del partito. E mi dispiace che un segretario nazionale se ne sia andato denunciando il male delle correnti, ma capita di sbagliare». L’allusione è alla lettera shock con cui Zingaretti si è dimesso il 4 marzo 2021, poco dopo la nascita del governo Draghi: «Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da venti giorni si parli solo di poltrone e primarie», ha scritto, «mi ha colpito il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto». Parole come pietre, mal accolte e mai spiegate. Ma chiarissime per il deep state Pd: erano indirizzate ai ministri Andrea Orlando, allora vicesegretario, e Franceschini, accusati di aver giocato in proprio la partita del nuovo governo e di aver lasciato poi impallinare il leader per non aver saputo imporre una donna nella pattuglia dei tre ministri (il terzo è Lorenzo Guerini, ma resta fuori dal conto dei cattivi perché richiesto dal Colle).

E siamo a mercoledì, all’incontro fra Letta, Astorre e Francesco Boccia, il responsabile enti locali. Letta ha imposto lo stop ai giochi e ha “consigliato” al segretario regionale «di proseguire nella definizione della coalizione e del programma ma di spostare all’autunno la designazione della candidatura». Chiedendo di «ricercare la massima convergenza possibile e di lavorare per l’unità interna». Il giorno dopo i giornali hanno titolato: Letta esclude le primarie. Invano il Nazareno ha corretto. «Le primarie sono un’opzione», viene specificato, «non si è deciso né in un senso né in un altro».

In realtà lì si spera nella convergenza su D’Amato. Che ha l’appoggio di Carlo Calenda, cosa che in un turno secco può fare la differenza. Ma Calenda ha trascorso la campagna per il Campidoglio a prendersela con la terna «Bettini, Astorre e Mancini». E poi detesta i Cinque stelle. E infatti ha abbandonato il tavolo della coalizione che lavora al programma comune, M5s inclusi. Insomma, un rompicapo.

Leodori tace, da uomo prudente e saggio. D’Amato si ribella: «Non sono uno che scalpita. Metto a disposizione del Pd e della coalizione il mio lavoro», dice a Repubblica, sulle primarie «si deciderà assieme». Ma «non mollerà», riferisce chi ci parla. Lo stesso dicono quelli di Leodori. Gasbarra ha dalla sua i romani che stanno con Gualtieri. E il voto di Roma è cruciale per compensare la valanga di destra delle province (le recenti sconfitte a Viterbo, Rieti e Frosinone vengono accollate ad Astorre). Ma Gasbarra accetterebbe di misurarsi con Leodori?

D’altro canto, senza un nome condiviso, perché il Pd dovrebbe cancellare le primarie di coalizione? Perché nel frattempo anche la consigliera Marta Bonafoni ha iniziato la sua corsa alle primarie, unica donna e fin qui unica candidata della sinistra. Bonafoni non è impressionata dalla bagarre. «Trovo comprensibile e giusto che il Pd cerchi una candidatura unitaria. Ma si tratta di una sintesi interna che non può bastare a fare sintesi nella coalizione e, più importante, nella società, specie con l’astensionismo primo partito del Lazio», dice. «Le primarie sono l’occasione per un riavvicinamento con un popolo sfiduciato. Non si tratta di decidere in una stanza se fare o disfare un gioco per pochi. Ma di andare per le strade a riconquistare la fiducia dei molti». Con lei c’è Elly Schlein. E ieri a favore delle primarie si sono espressi anche Europa verde e Sinistra italiana.

Infine c’è il lato Cinque stelle. Un lato molto provato. Anche dal fuoco amico. Zingaretti, che ai bei tempi giallorossi aveva laureato Giuseppe Conte «punto di riferimento dei progressisti», ora dichiara quella definizione «superata». Ovvio, date le circostanze. Ma il Movimento, travagliato dalle contorsioni interne, ora rischia la crisi di nervi anche nel Lazio. Si aspetta l’esito delle primarie della Sicilia, il 23 luglio, per un bilancio. Ieri l’assessora Roberta Lombardi su Facebook si è lanciata in un’appassionata difesa di Conte. Quanto invece alle vicende regionali, spiega: «Rispetto al Pd noi abbiamo un’organizzazione, o una disorganizzazione diversa. Per noi individuare un candidato comune è una buona strada. Ma deve essere chiaro: non è una questione interna al Pd».

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