Dopo il richiamo della commissione Pari opportunità della Rai e di Usigrai, una lettera aperta con trecento firme di attiviste, giornaliste e intellettuali denuncia la «spettacolarizzazione dello stupro» e la «vittimizzazione secondaria» andata in onda durante l’intervista di Nunzia De Girolamo nella trasmissione Avanti Popolo alla ragazza che ha denunciato la violenza sessuale subita da sette coetanei quest’estate a Palermo. La conduttrice ha chiesto alla diciannovenne di ripercorrere gli abusi, raccontandone i dettagli, ha fatto ascoltare stralci delle intercettazioni degli stupratori, ha letto i commenti colpevolizzanti pubblicati sui social.

«Tale incompetenza nella trattazione del tema, come qualsiasi spettacolarizzazione della violenza di genere, sono tanto più inaccettabili, soprattutto se a perpetrarle è il servizio pubblico radiofonico e televisivo nazionale», si legge nella lettera.

Non è la prima volta che succede. La violenza sessuale viene utilizzata dai media per fare audience, catturare l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica. È capitato con il caso di Alberto Genovese, imprenditore accusato e poi condannato per stupro, la cui vicenda è stata protagonista di numerose puntate di trasmissioni televisive. Simile attenzione mediatica è stata riservata al caso di violenza sessuale che coinvolge il figlio di Beppe Grillo o l’altro in cui è accusato quello del senatore Ignazio La Russa, che hanno occupato pagine di giornali. Della vicenda di Palermo si è parlato per settimane.

Casi spettacolarizzati che arrivano alle cronache, ma che sono solo la punta dell’iceberg del fenomeno. Lontano da telecamere e giornali, i dati dell’Istat raccontano un paese dove 4 milioni e 520 mila donne (il 31,5% tra i 16 e i 70 anni) hanno subito una forma di violenza sessuale. Di queste, oltre un milione è stata vittima di stupro (652 mila) o di tentato stupro (746mila). A commettere le forme più gravi di violenza sessuale in oltre tre quarti dei casi sono state persone con cui la vittima aveva una relazione affettiva: partner, ex, oppure parenti o amici.

La dimensione sommersa

Le denunce sono poche, pochissime. Dice sempre l’Istat che questi reati hanno «una dimensione sommersa molto elevata». Inoltre, è «ragionevole pensare che i casi denunciati siano quelli, mediamente, di gravità maggiore». La proporzione di donne che dichiara di aver denunciato un atto generico di violenza o molestia sessuale subito negli ultimi dodici mesi – il tempo previsto dalla legge – è dell’1%. Per lo stupro o il tentato stupro la percentuale sale al 6%.

La violenza sessuale «è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Il cosiddetto numero oscuro, quello di coloro che non denunciano è particolarmente alto», afferma Elena Biaggioni, avvocata penalista e vicepresidente D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, che tuttavia avverte come negli ultimi anni ci sia stato tuttavia un aumento delle denunce. L’ultimo report del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno mostra come da poco meno di 4500 denunce del 2020 – anno in cui si è registrato il dato minore – si sia passati a 5.991 nel 2022.

«Un dato da tenere presente è che come per tutti i reati che riguardano la violenza maschile sulle donne, la maggior parte dei procedimenti vengono archiviati e il tasso di condanna è basso. Quest’ultimo aspetto è stato anche recentemente criticato dal Gruppo Esperte sulla Violenza del Consiglio d'Europa (GREVIO) che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul», spiega Biaggioni.

Secondo i dati Istat nel 2018 l'autorità giudiziaria ha iniziato il procedimento per 6.759 casi di violenza sessuale denunciati. Le sentenze di condanna sono state 1.870, di cui 75 per violenza sessuale di gruppo, in aumento rispetto alle 1.697 del 2017. Tra la data del reato e la sentenza sono passati in media 32 mesi, 68 in appello.

Poi, aggiunge l’avvocata, «c’è tutto quello che succede quando si va a processo. È un reato particolarmente complesso, con conseguenze particolarmente gravi perché la condanna per violenza sessuale nell'ipotesi non lieve comporta nella stragrande maggioranza dei casi una pena da eseguire: si va in carcere. Quindi la difesa è particolarmente agguerrita».

Vittimizzazione secondaria

Negli ultimi anni alcune sentenze che riguardano casi di violenze sessuali sono state fortemente criticate sui giornali o sui social, perché intrise di pregiudizi e stereotipi e portatrici di quella che viene definita “vittimizzazione secondaria”. Quest’estate, ad esempio, si è parlato delle motivazioni di una sentenza emessa a marzo dal tribunale di Firenze che assolveva due imputati per stupro perché non avevano «piena consapevolezza della mancanza di consenso» della ragazza violentata, che era alterata dall’assunzione di alcol. Secondo il giudice, inoltre, la giovane aveva avuto comportamenti in passato che potevano aver creato un “fraintendimento”.

«Il nostro ordinamento ha fatto molti progressi e c’è stato un avanzamento culturale, e oggi nei processi le domande invadenti rispetto ad esempio alle abitudini sessuali della vittima o su come era vestita trovano un freno. Tuttavia rimane il dato che questi processi sono faticosissimi, perché di fondo c’è una cultura della stigmatizzazione. Tant’è che l‘Italia è stata condannata dalla Corte Europea e dal comitato Cedaw per il trattamento riservato dall’autorità giudiziaria alle vittime di stupro», spiega Ilaria Boiano, avvocata di Differenza Donna. Il problema dipende dal radicamento di stereotipi sessisti e anche da una mancanza di formazione sul tema della violenza sessuale.

La Convenzione di Istanbul prevede la presenza in un ufficio di magistrati che si occupano quasi esclusivamente di violenze di genere. La specializzazione, però, raggiunge il 24% tra i giudici di primo grado, mentre nelle Corti d’appello è quasi nulla.

«C’è una forte disomogeneità a livello territoriale riguardo il livello di formazione della magistratura e in generale di tutti gli operatori, sin da coloro che acquisiscono la denuncia o fanno le indagini. In ognuna di queste fasi possono costituire ostacoli ulteriori alla vittima che producono vittimizzazione secondaria», conclude Boiano.

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