Assurto inaspettatamente al secondo scranno delle istituzioni della Repubblica italiana, Ignazio la Russa approfitta spesso della sua condizione per intervenire polemicamente su temi e in contesti non connessi alla sua attività di presidente del Senato.

Ieri ha pensato bene, non si sa perché, di scrivere una lettera al Corriere della sera per attaccare il critico televisivo Aldo Grasso. Tema del dibattito un articolo sul Festival di Sanremo, la Rai e il ruolo di Gianmarco Mazzi, autore televisivo oggi sottosegretario al ministero della Cultura nonché esponente di Fratelli d’Italia. La lettera è ovviamente servita La Russa per unirsi al coro di chi stigmatizzando la manifestazione musicale, ne approfitta per invocare un salutare repulisti dei vertici di Viale Mazzini.

Il «frigorifero del cervello»

Quello di La Russa è solo l’ultimo episodio di una ossessione del potere politico nei confronti dello strumento televisivo cresciuta a partire dagli anni Ottanta, quando il mezzo si è svincolato dal controllo al quale era stato sottoposto sin dalla sua nascita nel 1954. 

Sia ben chiaro che una particolare attenzione da parte dei partiti all’arrivo della televisione in Italia e alle sue possibili conseguenza c’è sempre stata. In una prima fase della sua politica culturale il Pci aveva guardato con sospetto l’effetto sugli italiani di programmi quali Lascia o raddoppia o Il musichiere, temendo la deriva commerciale e consumistica che questo mezzo aveva assunto negli Stati Uniti.

Nelle diverse riviste culturali di area non mancavano articoli in cui, sottolineando il rischio di congelamento delle facoltà critiche dei teleabbonati, si parlava della televisione come di un «frigorifero del cervello». 

Il modo in cui nel 1960, con la nascita delle tribune elettorali, televisione e politica si incontrarono, fu fortemente controllato da quest’ultima che di fatto decise tempi, formati, registri comunicativi, facendo di quel programma un momento di inclusione nella nuova cittadinanza repubblicana e, al contempo, una sorta di introduzione degli italiani al confronto democratico. Con al centro, in posizione privilegiata e prestigiosa, la politica, i suoi esponenti, la sua parola.

Ma la novità era troppo forte e così, pochi mesi dopo la conclusione del primo ciclo di Tribuna elettorale nel 1960, nel corso di un tesissimo Consiglio dei ministri, Guido Gonella e Mario Scelba attaccarono la linea politica del presidente del Consiglio Amintore Fanfani, fautore di una apertura a sinistra da loro non gradita, con la motivazione che l’uso della televisione, concesso dal governo,  aveva avuto quale principale risultato di «portare Togliatti e le ballerine nel cuore degli italiani». Il timore degli effetti del nuovo mezzo su identità, coscienza e fede politica degli italiani non si è placato con il diffondersi della programmazione.

Era il 1964 quando Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della sera, attaccava frontalmente i programmi trasmessi sulla resistenza, peraltro molto cauti che, seguendo a suo giudizio un piano preordinato che prevedeva anche il sabotaggio e le malizie più impalpabili di luciferina scaltrezza, alimentavano l’odio e la contrapposizione sociale, mentre gli italiani chiedevano solo di essere lasciati in pace.  

Attacchi alla morale

Ma il tarlo, che man mano si incista e attanaglia politica e censori, è che la forza di persuasione della televisione, più che attraverso i programmi elettorali o d’informazione, possa agire all’interno di altri generi, solo apparentemente innocui o d’evasione.

La bonaria parodia della caduta del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi fatta da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello a Un due Tre, le gambe delle sorelle Kessler a Giardino d’inverno, lo sketch di Dario Fo nella Canzonissima con l’operaio che muore cadendo da una impalcatura, sono attacchi alla morale e al buon costume per i quali la politica richiede l’intervento diretto dei vertici dell’azienda pubblica.

Sebbene nel 1974 il direttore generale della Rai Ettore Bernabei scriva che in Rai non vi sono organi né attività di carattere censorio, la campagna elettorale per il referendum sul divorzio, che si tiene il 14 maggio di quell’anno, prevede nei programmi d’informazione la sostituzione del termine «legge sul divorzio» a favore del più asettico «modifiche dell’istituto della famiglia», oltre a una massiccia azione di epurazione e sterilizzazione dalla programmazione di ogni riferimento o rappresentazione di coppie in crisi o non ufficiali, che non risparmia sceneggiati, opere liriche, pièce teatrali, film. 

A partire dagli anni Ottanta, parallelamente all’accentuarsi della crisi del sistema politico-partitico uscito dalla Seconda guerra mondiale, la televisione pubblica si svincola dal diretto controllo della politica e passa da strumento finalizzato al compimento di un progetto culturale-pedagogico, a laboratorio e interprete di una nuova Italia, pervasa da nuovi valori, stili di vita, modelli. Non per forza positivi o edificanti, ma comunque reali e diffusi. In varie occasione la politica richiede ancore l’intervento censorio per i vari Samarcanda, Milano Italia, Profondo nord, Fantastico con Adriano Celentano, anche Blob. Ma i rapporti di forza si sono invertiti.

Un’idea vecchia

Con la sua letterina al Corriere della sera, la seconda carica dello stato dimostra di essere rimasto legato a una idea della televisione quale megafono diretto del potere politico e della maggioranza di governo che va ben oltre l’informazione, il cui adeguamento al succedersi delle maggioranze è come noto una triste ma longeva pratica della politica italiana. 

E questo richiamo all’ordine, al serrare le fila, anche del mondo della cultura e dello spettacolo, suona tanto più anacronistico perché portato da una politica desertificata, afona, ferita nelle sua fondamentale funzione di rappresentanza, come le elezioni regionali hanno ben mostrato, nei confronti di uno dei programmi televisivi, piaccia o meno, di maggior successo di tutti i tempi. Che sia forse proprio l’invidia e il riconoscimento di un tale consenso-popolarità che accende le reazioni della politica? Ed è davvero difficile capire a cosa La Russa si riferisca nella sua lettera quando definisce Chiamami ancora amore, con cui Roberto Vecchioni ha vinto Sanremo nel 2011 (trasmissione che aveva tra gli autori Gianmarco Mazzi) «una canzone di dileggio non proprio nascosto al capo dell’allora centrodestra». A meno che non si riferisca al verso: «Per il bastardo che sta sempre al sole/  Per il vigliacco che nasconde il cuore/ Per la nostra memoria gettata al vento/ Da questi signori del dolore». Ma se così fosse, l’ossessione sarebbe davvero preoccupante. 

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