L’attacco di Silvio Berlusconi a Sergio Mattarella non disvela solo l’ennesimo ritorno del Caimano, la voglia matta che ha la destra – una volta vinte le elezioni – di prendersi il paese, minando l’equilibrio dei poteri che caratterizza le nostre istituzioni, così come indica la Costituzione.

Proditoria o ingenua che sia, la gaffe improvvida sulle dimissioni del presidente della Repubblica in caso di approvazione del presidenzialismo è infatti anche il frutto avvelenato della profonda inimicizia che divide da sempre Silvio e Sergio. Un astio ultratrentennale che non si è mai sopito, e che ha toccato il suo zenit quando Mattarella è stato eletto sulla poltrona del Quirinale. Sedia sulla quale Berlusconi brama invano di accomodarsi da lustri.

L’antipatia tra i due è nei fatti, scolpita dalla storia recente del paese e dall’antica rivalità politica. Ma soprattutto dai caratteri opposti, dai riferimenti culturali e valoriali che più discordi non si può: fratello di Piersanti, ucciso dalla mafia stragista dei Riina e dei Provenzano nel 1980, Mattarella è un uomo riservato e schivo, legalista ed etico, un cattolico democratico della migliore scuola della sinistra Dc.

Un profilo che ha in Aldo Moro il suo maestro e che ha nulla da spartire con quello del tycoon craxiano e appassionato di escort. Capace di fondare Forza Italia insieme a Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E di difendere senza vergogna un mafioso pluriomicida come lo “stalliere” Vincenzo Mangano, capo di una delle famiglie alleate con i boss che hanno ucciso Piersanti Mattarella.

La legge Mammì

Al netto delle differenze antropologiche tra i due, l’acrimonia diventa fatto pubblico nel 2015, quando Berlusconi rompe il patto del Nazareno con Matteo Renzi proprio sul nome dell’ex democristiano che l’allora segretario del Pd aveva candidato al Quirinale. Ma in realtà l’antipatia di Berlusconi ha origini assai più remote: Mattarella fu infatti tra i cinque ministri del governo Andreotti a lasciare l’incarico come protesta estrema per la decisione di mettere la fiducia sulla legge Mammì.

Dispositivo che nel 1990 legalizzò quello che una direttiva europea al tempo vietava senza se e senza ma: il possesso, da parte di un soggetto privato come Berlusconi, di tre canali televisivi a diffusione nazionale. La legge passò lo stesso, sancendo l’inizio dell’impero Fininvest, fondamenta del potere economico e poi politico di Berlusconi.

La guerra contro l’anomalia berlusconiana divenne uno dei tratti distintivi della corrente di sinistra guidata da Mattarella nella Dc, che poi confluì nel Partito popolare dopo lo tsunami di Tangentopoli. «Rigorosa chiusura alla Lega, all’Msi, a Berlusconi», disse Mattarella durante la campagna elettorale del 1994 che vide poi trionfare il Cavaliere. Di più: «Quello che preoccupa di più è la concezione cinica e mercantile che della democrazia che dimostra di aver il cavalier Berlusconi», aggiunse da direttore del quotidiano Il Popolo.

Rileggendo editoriali e dichiarazioni dell’epoca è chiaro che Berlusconi e Mattarella si consideravano avversari pericolosi.

Il secondo, in particolare, cercò per un lustro e con ogni mezzo di mantenere i cattolici moderati e il Partito popolare fuori dal perimetro della destra di Berlusconi, Fini e Bossi. «È evidente la gravità della scorrettezza di un presidente del Consiglio che ostenta tanto arrogante disprezzo per una forza di opposizione e per il suo elettorato, da ritenere di poterlo comprare a buon prezzo», disse Mattarella all’inizio del primo governo del Cavaliere «Qui probabilmente Berlusconi confonde il suo ruolo istituzionale con quello di presidente del Milan: ma in politica non esistono le campagne acquisti». Trent’anni dopo, sappiamo che il futuro presidente su questo sbagliava grandemente, sottovalutando la capacità dell’imprenditore di comprarsi consenso e parlamentari.

Mattarella profetico

Berlusconi provò in ogni modo, nel corso degli anni Novanta e i primi del nuovo secolo, ad allargare verso il centro la coalizione di cui fu federatore, per provare a vendersi in Italia e all’estero come erede della tradizione conservatrice ma moderata di Alcide De Gasperi.

La conquista dell’elettorato della Dc era un’ossessione che Mattarella ostacolò in ogni modo. Conscio fin da subito che il programma berlusconiano avesse tratti «illiberali: c’è un rischio», scrisse il siciliano, «di svuotare sostanzialmente alcuni aspetti fondamentali della nostra democrazia, attraverso l’eliminazione di minoranze, la sordina alle opposizioni parlamentari, il controllo (con le tv e i giornali, ndr) della pubblica opinione».

Più di ogni altro aspetto, Mattarella già 25 anni fa segnalava i pericoli insiti nell’elezione diretta da parte del popolo di quello che Berlusconi chiamava allora non il presidente, ma «il capo» del governo. «Una denominazione estranea alla nostra Costituzione, ma propria degli anni Trenta», chiosò Mattarella più volte, allertando sulle «volontà smodate di comando e di potere» del nuovo premier.

Fondatore dell’Ulivo e poi del Partito democratico, Mattarella ha lasciato il parlamento nel 2008, e una volta eletto alla Consulta non è mai più intervenuto direttamente sui protagonisti della politica nazionale, trasformandosi rapidamente in un civil servant e uomo delle istituzioni superpartes. Già nel 2013, con la fine del primo mandato di Giorgio Napolitano, il suo nome era circolato tra i papabili alla successione.

In particolare, fu l’allora segretario Pier Luigi Bersani a proporre la sua candidatura, ma Berlusconi mise il veto: non si fidava di chi, molti anni prima, non solo aveva cercato di affondare la legge primo mattone del suo impero mediatico, ma che aveva pure osteggiato l’ingresso di Forza Italia nel Partito popolare europeo: quando gli europarlamentari azzurri nel 1998 furono ammessi a titolo individuale per la prima volta, Mattarella spiegò a Berlusconi: «Non basta invadere l’impero romano per diventare un “civis romanus”. Anche gli Unni e i Vandali provarono a fare i romani, ma essendo barbari non ci riuscirono». Un modo cortese per dire: barbaro eri, barbaro rimani.

Senatore mai

Anche nel 2015, quando Napolitano chiuse in anticipo il secondo mandato, Berlusconi bloccò in ogni modo il trasloco dell’allora giudice della Consulta al Quirinale. L’astio per Mattarella era tale che il Cavaliere prima provò a convincere Matteo Renzi ad appoggiare insieme a lui Giuliano Amato, poi – quando l’ex Rottamatore si impuntò – urlò al tradimento, fece votare ai suoi scheda bianca e decise di far saltare il patto del Nazareno. Stretto mesi prima con Renzi per portare avanti riforme bipartisan e la legge elettorale Italicum.

Quello strappo con Renzi sul nome di Mattarella ha segnato la strategia politica del Cavaliere per anni, appiattendolo sempre più verso la destra di Salvini e Meloni. Sarebbe ingiusto però non ricordare che durante il primo settennato i rapporti tra Silvio e Sergio – almeno da un punto di vista formale – sono migliorati col tempo. Dal Quirinale – che ieri ha preferito non fare alcun commento – ricordano bene che durante le consultazioni Berlusconi ha avuto con Mattarella incontri sempre cordiali e rispettosi.

L’inimicizia, spiegano però ambienti di Forza Italia, si è rinnovata di recente. A causa di due queestioni a cui il magnate tiene moltissimo. In primis, il capo di Fininvest ha sperato che Mattarella lo nominasse senatore a vita entro la fine del primo mandato. Un gesto a suo parere dovuto, per lenire la ferita, mai guarita, della sua cacciata da palazzo Madama. Avvenuta in seguito all’approvazione della legge Severino, che prevede la decadenza dei parlamentari in seguito a condanne definitive particolarmente gravi. Come quella incassata nel 2013 dall’ex premier a quattro anni di carcere per frode fiscale in merito alla compravendita dei diritti Mediaset.

Mattarella è anche il presidente del Csm, e solo un turista delle istituzioni poteva sperare davvero nella “grazia” presidenziale. Non è un caso che Mattarella abbia mai ascoltato gli emissari di Berlusconi: nel 2016 l’ex deputata Michaela Biancofiore chiese al capo dello stato «di sanare un’ingiustizia: a Berlusconi deve essere restituito quello che è stato tolto da una legge iniqua», mentre recentemente il giornalista Alessandro Sallusti ha scritto una lettera aperta al presidente in cui fa un appello «per riabilitare Berlusconi ed unire il paese: penso che come ultimo atto della sua presidenza Mattarella possa prendere in considerazione l’idea di mettere fine alla più grande guerra – giocata nei tribunali e sui media – intrapresa contro un solo uomo. Uomo che a questo paese, comunque la si pensi, ha dato tanto sia come cittadino che da imprenditore che da politico e statista».

In secondo ordine, l’avversione del forzista sì è rinfocolata lo scorso gennaio, quando l’ex Cavaliere, nonostante la condanna passata in giudicato e i processo ancora in corso per reati gravissimi, si è autocandidato alla presidenza della Repubblica. Il fallimento dell’operazione era scontato in partenza, ma ad Arcore l’amarezza per il flop non è stata banale. E così la rielezione del galantuomo Mattarella, diventato una sorta di nemesi in terra del Mackie Messer di Milano 2 (così lo chiamava Eugenio Scalfari, citando il lestofante cantato da Bertolt Brecht), non ha che peggiorato l’umore di Berlusconi.

Ora che il trionfo elettorale della destra si avvicina, l’anziano leader ribolle, e sogna la rivincita.

 

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