Il 24 gennaio numerosi “grandi elettori”, a cui la Costituzione conferisce il mandato – il più “alto” nell’esperienza di un rappresentante del popolo – di eleggere il presidente della Repubblica, non potranno essere presenti a Montecitorio a causa del Covid-19.

È opportuna l’individuazione di una soluzione per consentire, in caso di stato di emergenza, la partecipazione di tutti gli aventi diritto al voto, così da garantire il corretto equilibrio dei rapporti di forza determinati dalle scelte degli elettori? E ancora: sono costituzionalmente corrette soluzioni che permettano ai parlamentari, durante lo stato di emergenza, di partecipare all’attività deliberativa con voto elettronico?

Stato di emergenza e Costituzione

La nostra Costituzione, diversamente da altri ordinamenti, non prevede una disciplina dello stato di emergenza. Il tema venne discusso dall’Assemblea costituente – Costantino Mortati e altri non lo avevano escluso – ma accantonato per il timore che potesse divenire strumento per una eventuale deriva autoritaria.

Ex plurimis, Massimo Luciani ha ritenuto che i poteri emergenziali trovino fondamento nel primum vivere e la salus rei publicae, due «valori immanenti al sistema» e implicitamente previsti in alcune norme costituzionali.

La conclusione è perentoria: «La Costituzione, non la necessita, fonda i provvedimenti in questione: essi si radicano nel diritto costituzionale positivo, non nella pericolosa idea che la necessità sia essa stessa fonte».

“Catena normativa”

Luciani ha ripreso il concetto di «catena normativa» per spiegare i «rapporti formali tra i vari tipi di fonti» venuti in rilievo durante la crisi: la Costituzione legittimerebbe l’adozione di atti sub-primari (cioè gerarchicamente inferiori alla legge) in deroga alle norme in vigore tramite l’intermediazione di un atto legislativo che ne autorizzi l’adozione. Così, con la delibera del 31 gennaio 2020, il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza ex art. 24 del Codice di protezione civile, autorizzando l’adozione di ordinanze di protezione civile «in deroga a ogni disposizione vigente» (stato di emergenza sino a oggi perodicamente rinnovato sia dal governo Conte che dal governo Draghi).

L’esecutivo Conte, anche a fronte delle critiche, ha riconosciuto l’inadeguatezza di tale modello. L’aumento dei contagi ha richiesto incisive limitazioni delle libertà costituzionali, che non potevano continuare a basarsi su un atto non legislativo escluso dal controllo parlamentare.

In tal senso, a partire dal decreto-legge n. 6/2020 è stata introdotta una copertura legislativa al potere di ordinanza del presidente del Consiglio, esercitato nelle forme del Dpcm, nonché di quello dei presidenti delle giunte regionali e delle province autonome, individuandone presupposti e limiti (anche con l’obiettivo, talvolta non pienamente raggiunto, di evitare contrasti tra esecutivi statali e regionali).

Il voto a distanza

Dal punto di vista della gerarchia delle fonti il sistema ha retto, sia pure in modo disordinato, soprattutto con riferimento al rapporto stato-regioni. Tuttavia numerosi parlamentari hanno denunciato la marginalizzazione delle camere. In questa contingenza, in cui è stato peraltro difficile assicurare l’attività deliberativa in piena sicurezza, si è riaperto il dibattito sull’introduzione del voto a distanza da taluni considerato come uno strumento per permettere alle camere di recuperare la centralità.

Il presidente Roberto Fico, considerando l’articolo 64 della Costituzione nella parte in cui richiede la “presenza” dei parlamentari, ha sollevato la questione di una possibile interpretazione estensiva che legittimi il voto remoto. La Camera si è divisa: Emanuele Fiano (Pd) a favore; Simone Baldelli (FI) contrario.

Una prima apertura si è avuta autorizzando la partecipazione a distanza ai lavori delle Commissioni parlamentari nei soli casi di attività informali.

Durante la seconda ondata si è posto anche il problema del raggiungimento del numero legale: il 6 ottobre 2020 mancavano 41 deputati, impossibilitati a partecipare alla seduta. La conferenza dei capigruppo, per ovviare al problema, ha esteso – in via straordinaria e temporanea – l’istituto della missione ai parlamentari assenti per coronavirus, conteggiandoli ai fini del numero legale.

Il 1° ottobre dello stesso anno il Pd, primo firmatario Stefano Ceccanti, ha proposto la modifica al regolamento della Camera al fine di autorizzare l’esercizio del voto con procedure telematiche in circostanze che impediscano la partecipazione in presenza. Anche questa volta il centrodestra si è opposto.

Una soluzione pro-futuro

In questo contesto una riforma che introduca nella Costituzione lo stato di emergenza avrebbe il pregio di rimettere ordine nel sistema delle fonti e legittimerebbe in modo chiaro e indiscutibile i poteri di parlamento, esecutivo ed enti territoriali.

Inoltre, con riferimento al dibattito contingente sulla elezione del presidente della Repubblica, la riforma dovrebbe costituzionalizzare la facoltà del presidente delle Camera, sentito il presidente del Senato, di rinvio della convocazione della seduta comune durante l’emergenza. In questo modo si garantirebbe la presenza di tutti i “grandi elettori” e quindi la piena regolarità del voto – condizione di costituzionalità ritenuta imprescindibile da numerosi giuristi e addetti ai lavori – ponendo fine alla ricerca di soluzioni estemporanee, spesso giustificate da interessi di parte. Occorrerebbe che la novella costituzionale sull’emergenza contempli, per i profili attuativi, il rinvio alle fonti primarie.

In particolare, i regolamenti parlamentari dovrebbero normare le modalità di partecipazione attraverso piattaforme digitali alle sedute e al voto, quest’ultimo da consentire nei soli casi di scrutinio palese, almeno sino a quando non saranno certificati sistemi informatici in grado di offrire assoluta garanzia di sicurezza e impenetrabilità da parte di hacker e di esterni.

Nel senso della costituzionalizzazione si muovono le proposte di legge costituzionale del marzo 2020, A.C. 2438, primo firmatario Ettore Rosato, e A.C. 2452, primo firmatario Stefano Ceccanti, che prevedono la deliberazione dello stato di emergenza rispettivamente da due terzi dei presenti e da due terzi dei componenti di ciascuna camera (in tal caso le funzioni del parlamento verrebbero delegate a una Commissione bicamerale ad hoc, composta da un decimo dei componenti di entrambi i rami, soluzione questa che difficilmente può trovare ampio consenso). Il progetto Ceccanti prevede inoltre il ricorso al voto a distanza.

L’assenza di una disciplina costituzionale, da ultimo, ha aperto un dibattito sulle soluzioni per garantire la regolarità dell’elezione del presidente della Repubblica. Michele Ainis e Andrea Patroni Griffi, per evitare l’alterazione degli equilibri tra le forze politiche, hanno aperto alla possibilità del voto elettronico.

È stato richiamato il precedente di alcuni parlamenti nazionali nonché del parlamento europeo, che ha consentito l’elezione del presidente dell’assemblea con una procedura ibrida: voto in presenza e a distanza – sollevando peraltro perplessità, come ricordato dal sito Politico – sulla sicurezza e inviolabilità del voto.

In Italia la soluzione del voto da remoto è stata ritenuta da molti contraria allo spirito dell’articolo 83 che prevede «la seduta comune» e comunque si scontra con il già richiamato problema della sicurezza del voto segreto (oltre che della mancanza dei tempi tecnici per implementarlo).

In aggiunta la conferenza dei capigruppo ha respinto la proposta del centrodestra di consentire ai contagiati di votare presso il loro domicilio romano. Tuttavia allo stato attuale rimane insoluto il tema del bilanciamento tra rigorosa lettura della Costituzione e garanzia che il capo dello stato sia votato da tutti i “grandi elettori”.

Le riforme proposte per lo stato di emergenza nei casi di calamità naturale ovvero provocata dall’uomo, e tra queste la facoltà per i presidenti delle camere di rinvio della seduta comune e l’introduzione del voto elettronico nei casi di scrutinio palese, potrebbero rappresentare parte di un processo di “re-ingegnerizzazione” – espressione usata da Nicola Lupo – delle attività del parlamento al fine di assicurare una maggiore funzionalità e modernità, nonché aderenza ai principi e alle prassi in evoluzione della Costituzione materiale.

La certezza delle norme costituzionali salvaguarderebbe il rispetto degli equilibri istituzionali e politici, da taluni ritenuti a rischio nell’imminente votazione del presidente della Repubblica.

L’autore è dirigente generale della presidenza del Consiglio. Le opinioni sono qui espresse a titolo personale.

 

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