Tutti insieme si sentono la spina dorsale del paese, quelli eletti con il centrosinistra l’arma segreta per vincere le prossime politiche. I sindaci italiani sono sempre più un’entità politica di cui va tenuto conto in tutti gli equilibri, dal governo al Quirinale.

Con loro il premier Mario Draghi ha stretto un legame fiduciario forte, che si è rinsaldato nei giorni scorsi all’assemblea dell’Anci, dove ha detto che «il Recovery è nelle vostre mani». In numeri, si tratta di circa 50 miliardi di fondi da spendere e che dipendono proprio dagli ottomila comuni. 

Una responsabilità non da poco, che fa nascere un’asse stretta di mutuo ascolto con palazzo Chigi e che proietta le città al centro della scena politica, come del resto è stato anche nella gestione della pandemia.

I sindaci vogliono utilizzare questa centralità per guadagnare ulteriore spazio a livello nazionale, in particolare nella corsa al Quirinale. I primi cittadini, per voce del presidente dell’Anci, Antonio Decaro, hanno infatti pubblicamente chiesto di essere indicati come delegati delle regioni a Roma, nei giorni caldissimi in cui l’assemblea della Camera in seduta comune eleggerà il nuovo presidente della Repubblica.

Le regole

L’articolo 83 della Costituzione fissa le regole per nominarli: tre per regione ad eccezione della Val d’Aosta che ne indica uno solo, sono eletti dal consiglio regionale in modo che sia rispettata la rappresentanza delle minoranze. La Carta dice solo che devono venire eletti dal Consiglio regionale e non ne specifica la provenienza, ma è sempre stata interpretata nel senso di scegliere all’interno del consiglio e della giunta regionali. Sul fronte della maggioranza, per prassi vengono indicati il presidente della Regione e il presidente dell’assemblea regionale. Per la minoranza, invece, si sceglie tra i consiglieri di opposizione e la gara interna per il ruolo è sempre sotterranea ma combattuta.

A sottolineare quanto l’onore sia ambito tra i consiglieri regionali, nel 2013 l’unico sindaco che era arrivato vicino ad andare alla Camera come grande elettore era stato l’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi. L’allora governatore della Toscana, Vasco Errani, aveva dato il via libera per la sua nomina, che però era stata fermata dalla votazione del gruppo Pd in consiglio.

A maggior ragione in quella che si prospetta come una partita a scacchi fondamentale, la richiesta dei sindaci non ha scaldato gli animi dentro il Partito democratico e le sue articolazioni regionali, anzi. 

Oltre ad essere ambiziosa, infatti, la richiesta dei sindaci si inserisce in un contesto peculiare: a rivendicare politicamente questo ruolo sono soprattutto i sindaci di centrosinistra ma, per la prima volta nella storia della repubblica, la delegazione regionale che andrà ad integrare l’assemblea sarà a maggioranza di centrodestra. 

In questo momento le regioni amministrate dal centrodestra sono 14 (una è la Valle d’Aosta) più la provincia di Trento, mentre quelle di centrosinistra sono 5. Quindi, dei 58 delegati regionali, 35 saranno di centrodestra. Il centrosinistra dovrà decidere chi indicare come unico grande elettore di minoranza in questi territori. 

Le regioni

La scelta è attesa a breve: entro il 19 novembre tutte le regioni dovranno indicare i tre nomi dei delegati a Roma. 

E il silenzio di quasi tutti i governatori sulla richiesta è stato più che eloquente. L’unico a tenere una posizione diversa è stato il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. «Lasciando la potestà di decidere all'Assemblea Legislativa della mia Regione e secondo quanto previsto dalle norme», ha specificato, «uno dei posti della nostra delegazione dovrà essere a disposizione dei sindaci. Anche il mio, nel caso, per togliere ogni dubbio». Dunque, a poter ambire a un posto in prima fila nella nomina del nuovo presidente sarebbe il neoeletto sindaco di Bologna, Matteo Lepore.

Il passo avanti di Bonaccini ha anche una lettura secondaria e tutta interna alla dinamica del Pd. Da aspirante candidato segretario, il governatore emiliano ha tutto l’interesse a mettersi a capo della delegazione dei sindaci, creando con loro un rapporto esclusivo e facendo leva sul brusio crescente di un loro malcontento nei confronti della gestione del segretario Enrico Letta. La cosiddetta corrente dei sindaci, infatti, è molto attiva in una chat in cui l’argomento principale è proprio quello di essere tenuti in maggiore considerazione da Letta, soprattutto dopo i successi delle amministrative di ottobre.

Nessun altro tra i governatori regionali lo ha seguito, invece. Anche perchè – viene fatto notare – inserire i sindaci nelle delegazioni regionali significherebbe rendere ancora più incerta la già balcanizzata assemblea in seduta comune.

Normalmente, infatti, i delegati regionali vanno ad accomodarsi nell’ala dell’emiciclo del gruppo politico di cui fanno parte. Per i sindaci, espressione civica per antonomasia, però non sarebbe così scontato.

Nel caso in cui tutte le regioni accogliessero la richiesta, sarebbe difficile non scegliere come rappresentante il sindaco del capoluogo. Allora per la Lombardia, per esempio, il nome sarebbe quello di Beppe Sala, non iscritto al Pd. Per la Sicilia, il posto potrebbe essere reclamato da Leoluca Orlando invece. Entrambi sindaci di area centrosinistra – dunque da nominare in quota minoranza – ma autonomi rispetto ai dem.

Come spostano il voto

Certamente la componente regionale è esegua rispetto a senatori e deputati. Tuttavia anche qualche decina di voti, in quarta votazione quando il quorum si abbassa, può fare la differenza. 

In particolare i voti dei delegati regionali sono fondamentali per il centrodestra, che nella storia della repubblica non è mai arrivata a eleggere un proprio presidente.

Facendo i conti, attualmente Forza Italia conta 127 parlamentari, Fratelli d’Italia 58 e la Lega 197. A questi vanno sommati i 31 del gruppo Coraggio Italia di Giovanni Toti. A questi numeri è determinante aggiungere i 35 delegati regionali di area centrodestra, che portano il pallottoliere a 448 voti sicuri, non troppo sotto la maggioranza di 505 necessari per eleggere il proprio candidato al quarto scrutinio, nel caso in cui nelle prime tre votazioni non si raggiungesse la maggioranza qualificata dei due terzi.

L’orientamento dei sindaci

Al netto della difficoltà di una loro effettiva nomina, va notato come il movimento trasversale dei sindaci sia tutto sommato allineato – pur con motivazioni diverse - al volere generale dei parlamentari: non venire licenziati con le elezioni anticipate.

Usando le parole di Decaro, «noi sindaci siamo per la stabilità» e «vogliamo dare continuità a una fase che sta producendo frutti concreti». In una parola, sono disposti a fare di tutto purchè l’esecutivo Draghi prosegua fino al 2023. Oppure, più genericamente, sono disposti a fare di tutto purchè la legislatura continui, anche con Draghi al Quirinale, con un governo di sua emanazione. Del resto, nell’imperscrutabilità della volontà del premier, il suo è il nome più “quirinabile” dopo il no di Mattarella all’incarico bis.

Se con Draghi l’asse dei sindaci è di ferro, allora, la sfida per la nomina come delegati è tutta politica e in seno ai partiti. In particolare il Pd, infatti, la prossima sarà una settimana campale: se i consigli regionali decideranno per l’autoconservazione e la nomina di delegati interni, la volontà dei sindaci sarà frustrata. E lo smacco potrebbe pesare, nei prossimi mesi, sulla segreteria di Letta.

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