Nella storia dei 67 governi italiani succedutesi dal 1947 a oggi la caduta di Mario Draghi è un’anomalia statistica: raramente abbiamo assistito alle dimissioni di un presidente del Consiglio che poteva avere i numeri per proseguire il suo mandato. Possiamo considerarlo un atto di responsabilità di fronte a una palese instabilità politica, oppure interpretare il gesto in una visione più ampia, arrivando così a porci una domanda che ci sarà molto utile nei prossimi mesi.

La democrazia moderna è una delicata opera di convivenza tra due “ragioni”, entrambe perfettamente legittime: la “ragion di stato”, espressione dell’interesse generale del Paese, il fine ultimo delle azioni compiute per la sua prosperità futura, e la “ragion politica”, ovvero l’insieme di quelle necessità e bisogni espressi dalle comunità di cittadini che vengono progettualizzate nel programma delle forze politiche elette.

Una questione di convivenza

Due “ragioni” che, si badi bene, non devono mai coincidere, perché la prima è la sintesi di una visione generale, la seconda l’espressione di una volontà particolare. Solo nei regimi autoritari o nelle tecnocrazie i desideri di una singola forza politica diventano le linee guida di un paese. E tuttavia nemmeno il prevalere di una “ragione” sull’altra è positivo. Sostenere solo la “ragione di stato”, puntando, ad esempio, tutto sull’efficienza della capacità amministrativa, o dando la priorità a temi globali, esclude il pluralismo delle volontà dei cittadini. Allo stesso modo i partiti che puntano sui desideri più immediati dei loro elettori corrono il rischio di mancare di progettualità di fronte alle sfide più importanti di una nazione.

In una democrazia sana, funzionante e matura, le differenza tra le due “ragioni” va ricercata e preservata tanto quanto la convivenza costruttiva tra di esse. Un dialogo che la nostra stessa costituzione rende palese, individuando nel presidente della Repubblica il garante della “ragion di stato” e nel presidente del Consiglio, da lui nominato, la quintessenza della “ragion politica”, in quanto mediatore tra le diverse rappresentanze partitiche.

L’incarico a Draghi

È esattamente quanto fatto da Mattarella affidando l’incarico a Draghi per un «governo di alto profilo capace di far fronte alle emergenze del paese». Ha creato, in funzione della “ragion di stato” lo strumento per mantenere la necessaria convivenza con la “ragione politica”, dando comunque ai partiti la possibilità di esprimere la loro pluralità e la loro diversità.

Era quasi inevitabile che in un paese costantemente in emergenza, una convivenza basata su questi presupposti non potesse durare in eterno e i partiti ricominciassero ad anteporre agli obbiettivi globali la loro personale ragione politica. Draghi ha preso atto che lo strumento creato da Mattarella era divenuto inefficace e ha agito di conseguenza.

La vera scelta degli elettori

Descritto in questo modo lo scenario apre non solo domande scontate su chi guiderà il paese, ma sulla sua stessa governabilità. Quanta consapevolezza hanno le forze politiche della necessità di una convivenza tra le risposte destinate ai loro elettori e quelle che riguardano il futuro come nazione? In fondo la responsabilità di trovare un dialogo tra queste esigenze ugualmente importanti spetta solo a loro.

Di fronte a ogni manifesto elettorale dovremmo chiederci se esiste chi potrà far dialogare in modo efficace queste due “ragioni”, progettando così una democrazia realmente matura. La vera scelta dovrebbe essere dettata da questo perché l’alternativa sarà dare al paese un governo che diventerà presto parte della lunga lista prima del 69esimo.

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