Il decreto legge del governo Meloni contro i rave è ricalcato su un preoccupante precedente legale: la legislazione sul diritto di assemblea firmata da Vladimir Putin nel 2010, successivamente modificata in senso sempre più restrittivo e autoritario.

Nel 2012, proprio in seguito alle proteste in occasione dell’inaugurazione del terzo mandato di Putin, il parlamento russo ha elevato le pene per le assemblee non autorizzate, prevedendo sanzioni corrispondenti a 29 volte il salario medio mensile di un cittadino russo e a 400 ore di servizio sociale. Perfino Dimitri Medvedev – che oggi dice che l’obiettivo della Russia è «fermare il sovrano supremo dell’inferno» – aveva criticato la formulazione originaria del decreto, trovandolo eccessivamente severo verso i manifestanti.

I 6 anni di carcere previsti dalla norma italiana sono più gravi ancora, ma non si può non notare come l’effetto di disincentivo all’esercizio di riunione pacifica perseguito da Putin e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, convergano nella sostanza. Nel 2013 la Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa specializzato nell’ambito costituzionale, ha criticato la normativa russa, che attribuisce agli organizzatori delle manifestazioni responsabilità sproporzionate, come il controllo del numero dei partecipanti e «assicurare il rispetto delle condizioni per lo svolgimento di un evento indicate nell'avviso».

Le linee guida

Le linee guida della Commissione di Venezia sull’esercizio del diritto di riunione pacifica sono regolarmente usate non solo dal Consiglio d’Europa, ma anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalle Nazioni unite. Attraverso l’attività di questi organi in continua interazione con le giurisdizioni nazionali, le linee guida servono da bussola per i legislatori e per i giudici nazionali nella soluzione delle controversie. Le indicazioni della Commissione partono da un presupposto decisivo: il diritto di riunione pacifica è un diritto fondamentale dell’individuo, che tende anche a proteggere «l’espressione di opinioni diverse, impopolari o minoritarie».

La protezione di questa libertà «è fondamentale per creare una società tollerante e pluralista». Il diritto di riunione racchiude anche «comportamenti che possano infastidire o offendere, nonché comportamenti che ostacolino, impediscano o ostruiscano temporaneamente le attività di terzi». In quanto diritto fondamentale, «la libertà di riunione pacifica dovrebbe, per quanto possibile, essere goduta senza regolamentazione», indicano le linee guida, e «le autorità dovrebbero sempre proteggere e facilitare qualsiasi spontaneo assemblea fintanto che è di natura pacifica».

Quanto alle restrizioni, la Commissione dice che «né un ipotetico rischio di disordine pubblico, né la presenza di un pubblico ostile sono motivi legittimi per vietare un’assemblea pacifica». Un’assemblea che gli organizzatori intendono essere pacifica può comunque essere legittimamente ristretta «per motivi di ordine pubblico» solo «quando vi sono prove che i partecipanti stessi useranno o inciteranno ad azioni imminenti, illegali e disordinate e tale azione è probabile che si verifichi».

L’impostazione del decreto di Meloni-Piantedosi, che ora si premurano di spiegare che seguiranno le indicazioni del parlamento per emendare la norma, viola chiaramente questi principi, e ad essa si potrebbero applicare critiche analoghe a quelle che la Commissione di Venezia ha rivolto alle leggi russe.

La linea di Piantedosi

La norma è fondata sull’inversione della logica del sistema: la riunione pacifica è trasformata da diritto in attività precaria, soggetta al rischio e pericolo di una disciplina penale che si applica con severità estrema. L’esercizio di un diritto, invece di essere favorito e protetto, viene disincentivato dalla vaghezza dei riferimenti di esecuzione, dalla durezza delle conseguenze e dalla mutualizzazione penale (quasi una responsabilità oggettiva) di possibili comportamenti isolati dei partecipanti, che vengono estesi a tutti, in primo luogo agli ignari organizzatori.

Il diritto di riunione viene così tramutato in concessione e fortemente sfavorito se supera le 50 persone, soglia sotto la quale una manifestazione si riduce a una mera riunione di pochi simpatizzanti. L’aggiunta ridicola dell’elemento dell’occupazione non autorizzata di proprietà altrui aggrava la portata della restrizione: lo stato non ha un ruolo d’ufficio nel controllare a priori tutte le relazioni tra privati e i diritti tra loro in discussione.

Gli operai che occuperanno una fabbrica saranno passibili del nuovo reato? E i manifestanti in una stazione ferroviaria? E gli studenti che occupano un ateneo? Come dicono le linee guida, il diritto alla riunione va difeso anche nei casi in cui si concretizzi in «comportamenti che possano infastidire o offendere, nonché comportamenti che ostacolino, impediscano o ostruiscano temporaneamente le attività di terzi». È anche limitando questi diritti che la Russia di Putin ha allargato nel tempo il raggio della sua azione autoritaria.

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