Alla Cgil li definiscono «quattro quesiti contro il lavoro precario e per il lavoro sicuro», ma il nome comune presto diventerà un altro: referendum contro il Jobs Act, uno slogan orecchiabile che significa la cancellazione di una legge-simbolo del governo Renzi, il decreto legge 23 che nel 2015 modificò – leggasi abolì – l’art.18 dello Statuto dei lavoratori.

È il core business della «mobilitazione lunga» approvata dall’assemblea del sindacato lo scorso 26 marzo. Una mobilitazione che parte con quattro ore di sciopero generale, l’11 aprile, insieme alla Uil, su tre punti: morti sul lavoro, riforma fiscale, nuovo modello sociale e di impresa. Ma a tenere banco, c’è da scommetterci, saranno i referendum: in settimana i testi saranno depositati alla Cassazione, poi pubblicati in Gazzetta ufficiale. Da lì – orientativamente metà aprile – partirà la raccolta di firme da concludersi entro luglio.

A quel punto la parola passa alla Consulta. E se tutto va bene, il voto popolare arriverà nella primavera del 2025.

Conte, rivincita dei pop corn

Ma la turbolenza a sinistra potrebbe partire da subito. Quando la scorsa estate il segretario Cgil Maurizio Landini ha annunciato l’idea di un referendum contro il Jobs Act, Elly Schlein ha applaudito: ha ricordato di essere «sempre stata contraria» a quella legge, e annunciato che il Pd avrebbe seguito l’iniziativa sindacale.

Come prevedibile, la minoranza riformista del Pd non l’ha presa bene: ha criticato un sì «estemporanea» e senza previo confronto con il partito. In realtà già Enrico Letta aveva dichiarato «superato» il dl 23. A parole. Ma impegnarsi in una campagna referendaria per l’abolizione significherebbe di fatto chiedere un’abiura: in particolare alla corrente di minoranza, quella dei riformisti.

Per ora Cecilia Guerra, responsabile lavoro dem, ricorda che «il Pd si batte per l’estensione delle tutele al lavoro, e contro i contratti precari» dunque appoggia «ogni iniziativa che serve a tenere alta l’attenzione su questi temi»; quanto all’iniziativa sindacale, «ci sarà chi raccoglie le firme e chi no».

Ma l’avvio della raccolta delle firme può coincidere con l’ultimo miglio della campagna per le europee. Le divisioni sarebbero un regalo agli avversari. E a Giuseppe Conte, che invece a Landini ha assicurato pieno appoggio del M5s.

La volta buona

Prima di pensare al quorum, e all’effetto boomerang di un referendum perso, alla Cgil stavolta tutto deve andare bene. A differenza della scorsa. Nel 2017 il sindacato, guidato da Susanna Camusso, aveva già provato a cancellare la legge. Ma la Consulta dichiarò inammissibile il quesito.

Stavolta i quesiti proposti sono quattro: uno sulla reintroduzione delle causali per i contratti a termine; uno per estendere la responsabilità del committente sugli infortuni dei dipendenti di appaltatori e subappaltatori.

Ma i più “attenzionati” sono i primi due, quelli sui licenziamenti: uno, in caso di licenziamento illegittimo, chiede il superamento della monetizzazione al posto della reintegra; l’altro, sull’indennizzo nelle imprese fino a 16 addetti, elimina il tetto di sei mensilità in caso di licenziamento illegittimo, come indicato dalla stessa Corte con la sentenza 183 del 2022. Il tutto, viene spiegato, si inquadra nell’ottica della lotta alla precarietà, di cui il Jobs Act è solo una delle cause. Contratti a termine e appalti sono altre due.

La Cgil è convinta che stavolta il vaglio costituzionale sarà superato: perché, spiega Lorenzo Fassina, responsabile dell’Ufficio giuridico Cgil, «in questo caso abbiamo formulato un quesito secco sull’abrogazione totale del dl 23, mentre nel 2016 avevamo proposto un “ritaglio” di due leggi: il dl 23, e l’articolo 18 post Fornero. In quel caso la Corte lo aveva dichiarato inammissibile - sbagliando, secondo noi - perché aveva ritenuto che dal combinato Jobs Act e Art.18 non risultasse un quesito chiaro».

Per Fassina il fatto che alcune sentenze hanno già “smontato” parti del dl 23 non inficia la richiesta di cancellazione: «In realtà nonostante gli importanti interventi della Consulta, stimolati dalla Cgil – perché le sentenze sono arrivate in risposta a giudizi mossi da noi - la struttura del dl non è stata modificata. Per questo noi riteniamo che il Jobs Act sia ancora pericolosissimo».

L’appello a firmare è a tutto il mondo della rete “La via maestra, insieme per la Costituzione”, le cento associazioni che intanto preparano la mobilitazione contro il premierato e l’autonomia differenziata a Napoli il 25 maggio.

Prima però la road map delle iniziative prevede lo sciopero dell’11 aprile, una manifestazione a Roma per la sanità pubblica; e il corteo nazionale del 25 aprile a Milano. Quest’anno se ne annuncia un’edizione speciale per un anniversario politicamente molto sensibile: nel 1994, al corteo antifascista per la Liberazione indetto dal quotidiano il manifesto – la prima mobilitazione di popolo contro il primo governo Berlusconi – parteciparono centinaia di migliaia di persone.

Fra loro c’era anche Umberto Bossi. E quella special guest fu il primo passo simbolico verso la successiva caduta dell’esecutivo. A trent’anni di distanza il quotidiano comunista ha rilanciato la mobilitazione generale, pacifista e antifascista: hanno già detto sì Arci e Anpi. La Cgil ufficialmente non ha ancora aderito, ma c’è da scommettere che sfilerà in forze.

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