Due no secchi, «netta contrarietà» ai quesiti sulla custodia cautelare e all’abolizione della legge Severino, mentre per gli altri tre referendum sulla giustizia – separazione delle funzioni, equa valutazione dei magistrati e riforma del Csm – hanno materie che stanno dentro la discussione che si fa in parlamento e noi pensiamo che le riforme avverranno lì, è dentro il dibattito parlamentare che noi vogliamo le risposte».

Alla direzione del Pd il segretario Enrico Letta parte naturalmente dai venti di guerra in Ucraina, chiede che siano fatti «tutti gli sforzi diplomatici per una soluzione pacifica», che la Russia «ritiri le truppe al confine» e che si apra una nuova «Helsinki sul futuro della pace e sicurezza in Europa, con anche la Russia al tavolo». Ma quando finisce la riunione il presidente Vladimir Putin ha riconosciuto l’indipendenza del Donbass: la condanna è totale, «è un cambio completo di paradigma nella storia europea, una direzione di non ritorno», il Pd chiede un dibattito parlamentare.

I referendum

Prima però erano state sono questioni più prosaiche – e decisamente meno drammatiche - a tenere banco. Innanzitutto i referendum. Letta inizia volando alto, dall’elogio dell’unità del partito testata nei giorni delle elezioni del Quirinale, ma deve precipitare immediatamente in un nuovo tentativo di tenere insieme i suoi, che non la pensano tutti allo stesso modo. Buona parte di Base riformista è tentata dai sì ai cinque quesiti sulla giustizia. In parlamento c’è «una delle più attese riforme del nostro paese», spiega Letta, «nelle riforme Draghi e Cartabia» sul Consiglio superiore della magistratura «ci sono passi avanti fondamentali».

Per ora il Pd punta tutte le sue carte sulla riforma. Ma se non dovesse passare in tempo? Secondo Andrea Romano, che dell’area del ministro Lorenzo Guerini è il portavoce, crede che «se non dovesse arrivare» l’approvazione della legge, «bisogna dire sì ai referendum che vanno in quel senso». Il costituzionalista Stefano Ceccanti la interpreta nella stessa maniera: se non arriverà la legge «sarà logico votare sì». Non tutti la pensano così, c’è chi crede che nel caso potrebbe finire in una libertà di voto.

La scelta finale dunque è rimandata, per ora, ma nel Pd sul tema c’è maretta, al senato lo scontro nel gruppo Pd resta forte. E resta forte il malumore dei sindaci del partito sul no al quesito sulla legge Severino, un malumore che nella direzione non viene neanche nominato. I primi cittadini di area progressista hanno già spiegato il loro orientamento al sì, a partire da Matteo Ricci, che dei sindaci dem è responsabile. Ma Letta è tranchant: «Non riesco che a dare una netta contrarietà». E al Nazareno il discorso che circola ha termini ancora più netti: «Sulla giustizia bisogna essere rigorosi, il Pd non ha nessuna intenzione di assecondare uno scontro fra veri e finti garantisti».

La legge elettorale

Per Letta le polemiche «sporcano» il racconto del partito. Ma non sono solo i referendum ad agitare il gruppo dirigente. Negli scorsi giorni è circolata qualche interpretazione un po’ troppo estensiva del ritorno a una legge proporzionale. Goffredo Bettini è sembrato ventilare una possibile replica delle larghe intese con la Lega. Tutta colpa dei giornalisti, spiega lo Bettini in direzione: «Ho solo auspicato di avere dall’altra parte», dunque come avversario, «una Lega più impiantata nei principi della Costituzione e in quelli dell’Europa».

Letta nel 2013, da palazzo Chigi, raccolse e portò avanti la stagione delle larghe intese di Monti. Oggi crede che dal 2023 la stagione dovrà essere chiusa. E a scanso di equivoci va giù pesante: l’attuale maggioranza «è faticosa e irripetibile», meglio se la legge elettorale si potrà cambiare, ma nessuno punti al pareggio.

«Dobbiamo avere l’ambizione di vincere», «lo dico da allenatore della squadra come è un po’ un segretario: non so con quale legge elettorale e se come segretario avrò un ruolo nella scelta della squadra, ma se lo avrò, guarderò ogni giocatore negli occhi. E se vedrò gli occhi di tigre di chi vuole vincere lo metterò in campo, se vedrò negli occhi il pareggio lo metterò in panchina». La citazione è generazionale, da Rocky Tre, quando Apollo Creed dice a Balboa: «Quando combattevamo noi due, tu avevi gli occhi di una tigre, eri feroce. Devi farti tornare quegli occhi». «Puntiamo ad avere un governo progressista» traduce il suo vice Peppe Provenzano. Ma se ne riparlerà, c’è confusione sotto il cielo del Pd: una parte di quelli che vogliono il proporzionale pensano alle larghe intese, ma di fatto presuppongono le larghe intese anche quelli che voglio Draghi anche dopo il 2023.

Per l’oggi ci sono riforme che si possono fare persino con questa maggioranza. «Chiediamo a tutti di essere seri e responsabili, mi ha colpito che dopo quello che successo l’altro giorno, la Lega ha votato fuori dalle logica di maggioranza e contro il parere del governo, chiediamo serietà». Priorità a «delega fiscale, concorrenza e appalti, tre provvedimenti del governo che sono la condizioni per ottenere i soldi del Pnrr e nessuno può immaginarsi che i soldi tardino per colpa del parlamento o delle istituzioni».

Per il domani c’è anche il salario minimo, «un tema che vogliamo affrontare senza superficialità, sapendo che è un tema che divide, ma che per noi è fondamentale». Anche sui diritti c’è un po’ per l’oggi e molto per il domani, ma solo in caso di vittoria: l’approvazione (oggi improbabile) della legge sul fine vita e di una legge contro l’omotransfobia (altrettanto improbabile). In estate «una sintesi delle proposte uscite dalle Agorà democratiche» con i Sassoli Camp, «dieci campi in tutta Italia nei quali per alcuni giorni, contemporaneamente, mille democratici e democratiche, singoli cittadini e militanti, non iscritti a nessun partito». Poi festa nazionale delle agorà. Quest’anno la Festa nazionale dell’Unità si trasferisce a Palermo, per sperare di espugnare la Sicilia alle regionali di ottobre.

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