La strategia del No: al via la raccolta firme. È duello sulla data

Tra i pasticci della manovra e le liti in maggioranza, il governo procede a ritmo serrato almeno su un campo: quello della giustizia. Il consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che porta a due i giorni di voto per il referendum costituzionale sulla riforma della magistratura e la scelta era tutt’altro che scontata visto che la normativa generale prevede un solo giorno di urne aperte. La scommessa è che più persone andranno a votare più voti arriveranno Sì, anche considerando che storicamente gli elettori di centrodestra si mobilitano meno e che il referendum non ha quorum. Tema ancora inevaso, invece, è quello della data. Ad oggi i sondaggi danno il sì in vantaggio con circa una decina di punti e l’intento dell’esecutivo è quello di andare al voto il prima possibile per capitalizzarli. Quindi, come aveva anticipato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, l’idea era di programmare il voto addirittura al primo di marzo, usando come giorno da cui contare i 50 giorni minimi previsti dalla legge quello in cui la Cassazione ha approvato il quesito. Interpretazione possibile, ma non rispettosa della possibilità di proporre il referendum anche attraverso proposta popolare con 500mila firme. E proprio questo nodo è stato sfruttato dai sostenitori del No: il 19 dicembre, 15 cittadini hanno depositato in Cassazione la dichiarazione di aver cominciato la raccolta firme popolare, il che impone di contare i 50 giorni per fissare la data dal 30 gennaio. In questo modo, la prima data utile per il voto sarebbe il 22 e 23 marzo. E, se il governo insistesse nel fissarla prima, sarebbe alto il rischio di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale. La raccolta è anche un buon gancio per i sostenitori del no: la raccolta firme digitale con lo Spid ha permesso in passato di ottenere un boom di sottoscrizioni in pochi giorni. Dunque, se il risultato delle 500mila firme verrà raggiunta in modo veloce e la soglia ampiamente superata, sarà un segnale positivo per il no e la dimostrazione che la partita è ancora aperta. Il governo contro l’Ue, da cui incassa tanto spendendo poco Il referendum Il 27 dicembre - tra Natale, Capodanno e la complessa legge di Bilancio - il Senato farà i salti mortali per dare il via libera definitivo alla legge che stravolgerà le funzioni della Corte dei Conti. Proprio quella magistratura che, negli ultimi mesi, ha messo sotto la lente alcune delle iniziative più caratterizzanti per il governo: il ponte sullo Stretto, di cui è stata bocciata la delibera Cipess e i cpr in Albania, di cui è al vaglio un possibile danno erariale. Sempre la Corte, poi, ha acceso un faro sulla spendita dei fondi Pnrr, il cui utilizzo procede ma non corre come dovrebbe in vista della scadenza di giugno 2026. Il testo, già approvato alla Camera, è blindato sotto l’occhio attento del sottosegretario Alfredo Mantovano, ma l’Associazione nazionale Corte dei Conti spera ancora in un ripensamento dell’ultimo minuto, almeno per correggere i punti più problematici di una legge che rischia di produrre effetti anche su scala europea. La linea della magistratura contabile è stata quella di una mano tesa in extremis: «Chiediamo al parlamento un ulteriore spazio di riflessione» ha detto il presidente dell’Associazione magistrati Corte dei Conti Donato Centrone, elencando i rischi e i problemi di costituzionalità di un disegno di legge «frettoloso e privo di una visione sistemica», che rischia di «alterare gli equilibri costituzionali posti a tutela della legalità, della finanza pubblica e del corretto utilizzo delle risorse pubbliche, incluse quelle del Pnrr». Sì alla riforma della giustizia, anche se il sorteggio non convince La riforma modifica le funzioni della corte introducendo il cosiddetto “doppio tetto al risarcimento” per responsabilità amministrativa. La legge, infatti, prevede che l’ammontare del risarcimento per l’amministratore condannato per danno erariale calcolato dal giudice contabile debba poi essere risarcito in una misura massima equivalente al 30 per cento del pregiudizio accertato e comunque non superiore alle due annualità di stipendio lordo. «Con l’effetto che il differenziale tra ciò che paga il condannato e il danno prodotto rimanga a carico della collettività», ha spiegato Centrone. Inoltre viene ampliato il controllo preventivo sugli atti (introducendo un preventivo "a chiamata" su atti individuati dalle amministrazioni) e la funzione consultiva: può chiedere un parere alla sezione di controllo della Corte, che ha 30 giorni di tempo per rispondere. La riforma rafforza i pm e non risolve la commistione tra politica e giustizia Se non farà in tempo scatta una sorta di silenzio assenso: il parere si intende favorevole e il richiedente è esente da qualsiasi responsabilità. «Se non viene definita adeguatamente la disciplina, gli enti territoriali invaderanno la Corte con atti che le sezioni di controllo, alla luce degli organici, non saranno in grado di evadere», ha spiegato Centrone. Per avere una stima: oggi la Corte esamina circa 30mila pareri l’anno, con la riforma tutti e 8000 gli enti territoriali potranno presentarne quanti vogliono. In altre parole: si deresponsabilizzano gli amministratori pubblici e si intasa la Corte, «scudando i responsabili dello spreco di denaro pubblico», sottolineano i magistrati contabili. Gli effetti deteriori rischiano di ricadere sulle casse statali proprio nell’anno di conclusione del Pnrr, visto che la Corte è chiamata a vigilare sulla corretta gestione dei fondi e l’Ue richiede un controllo specifico per danno erariale sulla totalità dell’ammontare. Nel caso di frodi e irregolarità o mancato raggiungimento dei target intermedi e finali, infatti, tutto l'importo del Pnrr viene decertificato e va compensato sui trasferimenti successivi. Con il limite risarcitorio, l’effetto è chiaro: «Anche se a livello interno il nostro sistema riterrà che sia sufficiente il 30 per cento, la restituzione per il danno verificatosi all’Ue sarà del 100 per cento e il 70 mancante ricadrà sullo Stato e dunque sui cittadini», ha spiegato la magistrata Elena Papa. La riforma rancorosa del governo rischia di distruggere la cultura della giurisdizione