Il titolo è “presidenzialismo e regionalismo differenziato”, l’argomento sono le riforme istituzionali, su cui il governo di Giorgia Meloni punta molte risorse. Dietro, per ora, non c’è nulla. Nelle discussioni con le opposizioni e gli esperti s’è scoperto che sul presidenzialismo manca la proposta, salvo per un generico “governo di legislatura”; sul regionalismo differenziato pesa l’ipoteca dei costi economico-sociali.

Lo dice l’Ufficio Bilancio del Senato, che smonta la bozza di Roberto Calderoli, scritta per realizzare le velleità secessioniste di Veneto e Lombardia. I partiti di maggioranza vanno in ordine sparso: il presidenzialismo di Meloni mal si concilia con l’esigenza politica, di Lega e Forza Italia, di contenere la premier; il regionalismo differenziato leghista contraddice il nazionalismo unitario di Fratelli d’Italia.

Da tempo, ogni maggioranza politica ha tentato di aggiornare la Costituzione. Grandi o piccole, riuscite o no, le riforme sono sempre state un altro modo della lotta politica. I progetti non possono cancellare la storia e trascurare i problemi effettivi.

Il governo parlamentare

Quando si fece la Costituzione, si rifiutò il presidenzialismo ritenuto troppo divisivo. Si scelse, invece, il modello parlamentare, considerato più adeguato a un sistema politico-partitico frammentato e disomogeneo. Non si stabilirono però i correttivi per contenere le crisi extraparlamentari e per garantire la stabilità dei governi, divenuti una costante nella storia della Repubblica.

Nei primi 40 anni ci furono due fattori esogeni di stabilizzazione: da un lato, la convenzione che escludeva dall’area di governo il Movimento sociale italiano e il Fronte popolare social-comunista; dall’altro, l’obiettivo comune di ricostruire l’Italia dopo la guerra e la dittatura, che aveva fatto convergere le sinistre e i democristiani su quel fine.

La crisi è venuta negli ultimi trent’anni, con la fine dei partiti della Costituente e la nascita di nuovi soggetti. Le divisioni e le disomogeneità politiche sono rimaste, nonostante le leggi elettorali maggioritarie e l’alternanza dei governi. I problemi istituzionali sono ben noti: l’instabilità di maggioranze e governi, il parlamento con due camere identiche, il rapporto conflittuale tra stato, regioni, enti locali.

Il presidenzialismo impossibile

Sulla forma di governo, l’alternativa oggi è tra il presidenzialismo e il premierato. La prima soluzione, quale che sia il referente (Usa o Francia), è in contraddizione con la nostra storia. Non sarebbe una modifica ma una riscrittura della Costituzione. Si capisce perché la Destra la evoca. Eleggere direttamente il capo dello stato, almeno per Fratelli d’Italia, potrebbe essere l’occasione di darsi finalmente una “propria” Costituzione. La seconda soluzione ha maggiori possibilità: si muoverebbe nel solco del parlamentarismo, correggendolo. Due le strade.

I modelli di premierato

Una mira a rafforzare il premier eleggendolo direttamente. Il “sindaco d’Italia” o il “governatore d’Italia” sono due varianti analoghe, tratte dal sistema comunale e regionale. È un obiettivo su cui la Destra può puntare, anche per intercettare una parte dell’opposizione (ma non il Pd). Senza voler toccare il presidente della Repubblica (considerato un punto di riferimento irrinunciabile), l’elezione popolare diretta doterebbe però il premier di una forza in grado di dominare il parlamento e di ridurre il ruolo di garanzia del Quirinale.

L’altra soluzione sposta l’ottica. Il problema non è rafforzare il premier, ma equilibrare il rapporto tra parlamento e governo, senza eliminare l’intermediazione dei partiti, garantendo all’elettore la scelta di una maggioranza. Per questo basterebbe una legge elettorale che indichi sulla scheda il candidato premier e la coalizione che lo sostiene, da votare insieme, sulla base di un programma condiviso. Dopo si può discutere di poteri: al premier, la nomina e la revoca dei ministri, lo scioglimento delle camere; alle opposizioni, la sfiducia costruttiva (a maggioranza assoluta). Per riportare il governo in parlamento, però, andrebbero vietati i decreti-leggi e, in cambio, stabilita una corsia preferenziale per i progetti di legge dell’esecutivo, riservando spazi alle minoranze.

L’alternativa delle riforme è tra opposte idee di democrazia: quella, immediata (presidente o premier eletti direttamente), dell’investitura di un capo posto al di sopra della dialettica politica; quella, intermediata dai partiti, di un governo legittimato dall’indicazione popolare ma riportato in parlamento.

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