Ennesima giornata difficile per le ferrovie. Pd e Iv: «Il ministro si dimetta». Debole e isolato, il segretario ha un’idea: lui al Viminale e Zaia ai Trasporti. Lite tra il governatore veneto e Gasparri: «Lo sfameremo»
Si sente il rumore di fondo di un lavorìo, in questo partito, avrebbe detto Enrico Berlinguer. E Matteo Salvini dovrebbe riconoscere la citazione essendosi in passato paragonato al segretario del Pci. Si sente il rumore di un lavorìo sotterraneo, dentro la Lega, non per ottenere il sì al terzo mandato, quella battaglia è persa e «il discorso ormai è finito» ha dichiarato il governatore della Lombardia Attilio Fontana. Proprio lui che soltanto poche ore prima aveva definito il limite «una anomalia» e «un errore del governo non intervenire». Basta. Capitolo chiuso.
Qualcosa di altro però si muove dentro il Carroccio. Trattare è la parola d’ordine. Mentre oggi si consumerà il consiglio federale della Lega che vede coalizzati contro il leader leghista gli amministratori del Nord, che non si sono sentiti tutelati, Salvini e i suoi consiglieri stanno cercando una strategia per uscire dall’impasse. Sia in Veneto, sia nel partito sia negli equilibri di governo.
Il Capitano è debolissimo, gli effetti positivi della sentenza d’assoluzione sul processo Open Arms sono durati il tempo di un amen, cancellati dalle grane sul terzo mandato, gli attacchi dentro il partito e soprattutto dal caos dei treni, che viene usato dai suoi nemici per fiaccare ancor di più la leadership traballante. Anche per questo Salvini era assente al Senato, mentre le opposizioni urlavano «Salvini torna a bordo!». Pd, 5 Stelle, Avs, +Europa, Italia Viva, Azione lo hanno crocifisso di fronte all’ennesimo infarto del sistema ferroviario, mentre nessuno (né dentro FdI, né in Forza Italia, quasi nessuno anche nella Lega) lo difendeva.
Il ministro ha risposto tramite social, accusando dei disagi i governi precedenti: «Per recuperare i danni del malgoverno della sinistra, abbiamo avviato un piano da 100 miliardi di investimenti per le infrastrutture ferroviarie, con oltre 1.200 cantieri già attivi», ha detto. Dimenticandosi che la Lega ha sempre avuto un suo sottosegretario ai trasporti (da Edoardo Rixi ad Alessandro Morelli), con l’eccezione dei 16 mesi in cui ha governato il Conte II.
Flop terzo mandato
Oltre al disastro dei treni, anche il rebus del Veneto e l’ultimatum di Luca Zaia non fanno dormire sonni tranquilli al segretario. Se il governatore ha attaccato ferocemente il parlamento («lì ci sono bocche sfamate da da 30 anni), l’alleato Gasparri risponde a brutto muso: «Troveremo un modo di sfamare Zaia che ha fatto l'amministratore locale e pure il ministro». Ma non con una ricandidatura del Doge: anche da Via Bellerio parte il contrordine che vuole spegnere la questione: «Il dibattito», spiega Attilio Fontana, «è stato superato dalla decisione del governo alla quale noi ci inchiniamo». L’ennesima vittoria di Meloni, che ormai detta l’agenda agli alleati che altro non possono fare che eseguire gli ordini. Ignorati anche gli appelli di Massimiliano Fedriga: «Autonomia significa darsi delle norme. Decideranno i Consigli provinciale e regionale. Assemblee legislative sovrane. Meloni ci rispetti». Non è successo. «Ormai fa come la regina di cuori di Alice nel paese delle meraviglie», commenta un deputato veneto della Lega «La conosci la favola? È quella dove la regina dice “qui tutte le strade sono mie”».
Meloni governa, Salvini boccheggia. Il caos dei trasporti, il Codice della strada, i malumori arrivano anche da dentro il Carroccio. Uno scontento che cresce senza sosta dal 2019. Fino ad allora era solo il “Capitano”, quello che aveva fatto un bel lavoro sui candidati e sui collegi, bello nel senso di efficace, e pazienza per qualche sbavatura. Espugnato il palazzo, i leghisti si erano trasferiti tutti al governo. Ministri, sottosegretari, presidenti di commissione: lasciarono gli uffici con le bandierine con su scritto Prima il Nord per diventare partito nazionale. Poi il brindisi del Papeete, la fine del Conte I. Da lì sono arrivati i giorni dei tranelli e degli agguati. Le critiche del fondatore Umberto Bossi, lo scontento per l’intesa con il generale Vannacci, sondaggi e voti in caduta libera, un popolo disperso.
La mossa del cavallo
Oggi della Lega restano briciole, ma Salvini, che si è pentito di aver scelto i Trasporti, avrebbe un piano per provare a risalire la china. E sopravvivere politicamente. È un risiko, che prevede spostamenti niente affatto banali. Si parte dalla Campania, fortino “rosso” in bilico con la corsa di Vincenzo De Luca che potrebbe essere fermata dal ricorso del governo alla sua legge regionale. Qui FdI punterebbe ad avanzare una sua candidatura, con il viceministro Edmondo Cirielli in pole. Salvini spingerà però per candidare il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, suo ex capo gabinetto. Poco importa che Piantedosi abbia più volte smentito: «Non sarò candidato in Campania e non sono disponibile ad esserlo». Sarà Meloni a indicarlo, dicono dentro il Carroccio: perché di fronte alla cessione del Veneto a un candidato di FdI la premier non potrà dire di no. Salvini potrebbe così ritornare al Viminale. Un posto dove si può fare molta propaganda e lavorare poco, come aveva potuto sperimentare lui stesso nel 2018 passando fuori dai suoi uffici 60 dei primi 90 giorni da ministro. Per Salvini il suo successore non dovrebbe essere l’attuale vice Edoardo Rixi, spinto da un pezzo della Lega. Ma, nel progetto salviniano, toccherebbe a Luca Zaia in persona. Che, usando le parole di Gasparri, potrebbe essere “sfamato così”.
Salvini fa i conti senza l’oste, ossia Meloni. La premier, è vero, con il governatore ha un buon rapporto personale fin dai tempi in cui erano al governo insieme. Ma di “cedere” all’odiato rimpasto per cacciare Salvini fuori dai guai la leader non vuol saperne. «Serve ricucire», ripetono i saggi della maggioranza: gli strappi tra Lega e FdI sono profondi, e i governi anche più solidi possono andare rapidamente in crisi.
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