L’Italia vive la peggiore crisi politico-militare alle porte dell’Europa dai tempi dell’invasione russa della Crimea come una fastidiosa distrazione dalla trattativa per l’elezione al Quirinale, circostanza che ha sospeso praticamente ogni funzione del governo.

100mila soldati russi sono pronti sul confine orientale dell’Ucraina, la Nato è mobilitata, la Casa Bianca ha messo in stato d’allerta 8.500 soldati, Vladimir Putin sfida l’occidente e i suoi «annunci isterici» e il governo cosa fa? Rimira il catafalco. 

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, già acclamato (soprattutto dalla stampa straniera) come erede naturale di Angela Merkel alla guida dell’Europa, riceve leader di maggioranza e in generale dedica più energie alle trattative per il suo futuro che alla crisi internazionale.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha disertato la riunione Ue sull’Ucraina perché giudica più importante rimanere a trattare con i parlamentari a Roma, dove del resto s’adopera da mesi per contendere la leadership di Giuseppe Conte. Il vertice del Dis, Elisabetta Belloni, è candidata a tutto.

La guerra della scheda bianca

Mentre Mosca prosegue minacciosamente la sua linea di provocazione e la Casa Bianca si attrezza finalmente per una risposta, i leader della maggioranza coordinano la strategia della scheda bianca.

Di fronte all’evidente stridore fra l’enormità dei fatti e la pochezza delle preoccupazioni della politica italiana c’è stata una specie di resipiscenza.

Il segretario del Pd, Enrico Letta, insieme allo stato maggiore del partito, e per una volta in coro con Matteo Renzi, ha detto che è «preoccupato per la situazione tra Ucraina e Russia» e questo impone la necessità di un «un profilo atlantico» per la massima carica dello stato.

Nessuno s’inganni: non è un severo monito per il ritorno al senso di responsabilità internazionale, ma solo un modo per dire che il Pd non voterà mai Franco Frattini, accusato di eccessi filorussi.

Poco importa, nel calcolo di Letta, che il ministro degli Esteri suo alleato sia stato l’artefice della Via della Seta e che il Movimento 5 stelle non sia nella posizione per dare lezioni di atlantismo a nessuno.

Di Maio non è riuscito nemmeno a scrivere correttamente il nome del segretario di Stato americano nel suo prezioso libro di memorie.

Tutto fermo?

È stata ormai interiorizzata l’idea che l’elezione al Quirinale paralizzi completamente l’azione di governo, un pensiero invero curioso, dato che perfino la durata del mandato del capo dello stato è stata appositamente concepita per essere fuori sincrono rispetto a quella della legislatura.

Il clima provincial-ridanciano in cui si svolgono le elezioni non aiuta. Di fronte all’adolescenziale carrellata di nomi improbabili votati fra una scheda bianca e l’altra gli elettori a Montecitorio si sono fatti quattro risate, mentre molti osservatori, anche fra quelli pagati per fare questo lavoro, si sono premurati di notare che questa volta Rocco Siffredi non ha preso nemmeno una preferenza. 

Ognuno si dà le priorità che crede, ma la sovrapposizione fra la crisi in Ucraina e le elezioni per il Quirinale ha sottolineato l’assenza dell’Italia, bloccata in un autoimposto lockdown politico e marginalizzata nelle trattative che contano.

La Nato ha fatto sapere che i suoi membri sono in movimento per scongiurare l’invasione russa. La Danimarca invia una nave nel Baltico ed è pronta a schierare gli F-16 in Lituania, la Spagna dà sostegno navale all’alleanza, la Francia valuta l’invio di truppe in Romania sotto il comando della Nato, i Paesi Bassi contribuiscono con gli F-35 in Bulgaria.

L’Italia, invece, tramite la Camera di commercio italo-russa, organizza una videoconferenza fra le maggiori imprese italiane e Putin in persona, che si conferma uno dei massimi specialisti mondiali nell’occupare i vuoti della politica.

Oggi i vertici di Eni, Enel, Unicredit, Pirelli, Barilla e altri discutono con il presidente russo «le prospettive per l’espansione futura dei legami fra gli imprenditori dei due paesi», questione naturalmente legittima per un paese che ha un tradizionale ruolo di “cerniera” con l’est e dipende dall’energia di Mosca, ma la circostanza irrituale, vista sullo sfondo dei carri armati nel Donbass, non fa che amplificare il senso di vuoto lasciato dal governo.

In questi anni Putin ha sempre scommesso sul fatto che le democrazie liberali dell’occidente hanno perfezionato nel tempo una certa vocazione al suicidio. Imbrigliate in dialettiche litigiose e inconcludenti, finiscono per autosabotarsi, lasciando sguarniti spazi politici che spesso non richiedono nemmeno iniziative militari per essere occupati.

Osservando l’irreale paralisi politica di queste giornate a Montecitorio si capisce perché gli autocrati come Putin, pur guidando potenze regionali di dimensioni economiche modeste, dettano l’agenda della politica internazionale.

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