È bastata una frase e Matteo Salvini ha cambiato le prospettive del nuovo probabile governo: «Noi siamo a disposizione, lo abbiamo detto al professor Draghi». Il leader della Lega ha seguito diligentemente i consigli del suo braccio destro, Giancarlo Giorgetti, da tempi non sospetti favorevole a una discesa in campo di Mario Draghi per salvare l’Italia dalla palude economica. Così la Lega si è scoperta “responsabile” e attenta all’etichetta istituzionale: «Non abbiamo chiesto né chiederemo posti, lasciamo al professor Draghi come comporre la squadra», dice Salvini, che non dimentica mai l’appellativo di professore prima del nome del premier incaricato. Tutto perfetto: è una risposta a distanza al fatto che il Partito democratico avrebbe sottolineato a Draghi le proprie perplessità su una maggioranza troppo ampia. Poi Salvini passa al contrattacco, sottolineando che non si può dire no a quello che è – secondo i sondaggi – il primo partito in Italia: «Ma credo sia convenienza di Draghi amalgamare quanto più e possibile». Ciliegina sulla torta, che ha ripagato tutti gli sforzi di ricucitura diplomatica a livello internazionale messi in campo da Giorgetti, è la considerazione finale: «Abbiamo parlato di una collocazione atlantica, di amicizia con gli Usa, Israele, paesi occidentali e democratici».

Il disegno di Giorgetti

Dentro e fuori dalla Lega tutti sanno chi è riuscito a far ragionare il Capitano. La vittoria di Giancarlo Giorgetti è stata piena e a testimoniarlo non sono solo le dichiarazioni di Salvini. La Lega si muove e vota sempre in modo compatto e quando la direzione viene indicata in modo preciso, tutti si allineano. Anche a costo di capriole difficili da digerire, come quelle che hanno dovuto fare i due storici nemici di Giorgetti: il deputato Claudio Borghi e il senatore Alberto Bagnai. Entrambi nemici giurati dell’euro e dell’Unione europea, grandi accusatori proprio del metodo Bce, si sono accodati alla metafora calcistica del “Gianca”. Lui diceva che «Draghi è un fuoriclasse come Ronaldo», Borghi ha completato su La Stampa: «Se lo puoi avere a disposizione nella tua squadra, uno come lui puoi fare tanti gol», poi ha continuato su Twitter: «Prendere le critiche a Draghi come presidente Bce e trasferirle a Draghi Presidente del Consiglio è come prendere i fischi al calciatore che giocava nella squadra avversaria e mantenerli se viene a giocare nella tua». Metafore calcistiche a parte, il riposizionamento è chiaro. A prevalere è stata la linea della “normalizzazione” e il ragionamento è lineare: arroccarsi sul no avrebbe significato legittimare la nascita del governo, senza giocare alcun ruolo. Addirittura risolvendo agli avversari l’unico vero problema di una maggioranza fuori dal perimetro più comodo per il Pd. Invece, aprire senza condizioni a un esecutivo Draghi significa improvvisamente ribaltare la prospettiva, con un un duplice beneficio. Il primo è politico: prendendo parte al nuovo esecutivo, la Lega entra necessariamente nei giochi per l’elezione del futuro presidente della Repubblica che avverrà a inizio 2022, data che potrebbe essere anche quella di scadenza del governo Draghi. Soprattutto se proprio l’ex presidente della Banca centrale europea venisse indicato per traslocare da palazzo Chigi direttamente al Quirinale in ottica di stabilità. Il secondo beneficio, invece, riguarda la salvaguardia dell’elettorato storico leghista.

Ascoltare il nord

Proprio questa sarebbe stata la ragione che ha definitivamente convinto Salvini. Il «nord produttivo» – quello che è da sempre il bacino naturale della Lega – non ha avuto mai dubbi su Draghi. L’endorsement del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è arrivato dopo appena 24 ore e ha dato il segnale più evidente. Ma subito il mondo imprenditoriale ha iniziato a compulsare i suoi parlamentari leghisti – in molti hanno confermato l’arrivo di email e telefonate – e il primo ad ascoltarli è stato proprio il loro interlocutore più diretto Giorgetti, da sempre uomo cerniera dei rapporti con quel mondo. A fare breccia sono state le dichiarazioni di Draghi prima delle consultazioni, che sono state lette come un indirizzo dei fondi del Recovery nella direzione di favorire il lavoro e non dei benefici a pioggia. Su questo ha puntato Giorgetti: Fratelli d’Italia ha il suo elettorato di riferimento nel centro e nel sud, e dunque questi temi fanno meno presa, ma dire no a Draghi per non perdere appeal nella galassia più radicale avrebbe significato tradire lo zoccolo duro della Lega. Quindi sì a Draghi, «mettendo al centro lo sviluppo, soldi alle imprese, lavoro e non assistenza», ha snocciolato Salvini. Ecco dunque il teorema Giorgetti: meno fuoco e più tattica, e ora spetta a Draghi trovare la sintesi.

 

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