Da ora alle elezioni europee, quella tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni sarà una estenuante partita a scacchi. I due leader sono già in aperta concorrenza: Meloni davanti con il suo quasi 30 per cento e Salvini in cerca di spazio politico per superare la soglia psicologica del 10 per cento. Magra consolazione, dopo il trionfante 34 per cento della Lega alle europee del 2019, l’apice un attimo prima del tonfo del Papeete che la ha portato all’opposizione.

Oggi che si trova a rincorrere, la strategia del leader leghista per recuperare elettori e identità politica è quella di punzecchiare, infastidire e tentare sgambetti alla premier. Del resto i dossier delicati sono molti e riguardano sia il governo sia le scelte politiche del centrodestra. E Salvini sta sfruttando ogni spazio per anticipare decisioni che solo fino a qualche tempo fa venivano prese collegialmente tra alleati, costringendo Meloni a muoversi di conseguenza. La presidente del Consiglio, però, non è nota per la sua pazienza né per lo spirito coalizionale che aveva invece caratterizzato la leadership di Silvio Berlusconi quando i numeri erano ribaltati.

La candidatura europea

Il primo passo di Salvini è stato quello di annunciare a Quarta repubblica che non si candiderà alle elezioni europee. «Continuerò a fare il ministro» ha detto, volutamente ignorando l’input che Meloni aveva dato alla conferenza stampa del 4 gennaio. In quella sede, la premier aveva ammesso di riflettere sull’opportunità di una sua candidatura, ma anche che la decisione sarebbe stata presa insieme agli altri leader della maggioranza, di cui pure aveva paventato l’ipotesi di una corsa europea. Con l’obiettivo di fare il pieno di voti ma anche di pesarsi una volta di più. Invece Salvini ha scelto subito di sfilarsi: troppo rischioso andare alla conta delle preferenze personali proprio nel momento in cui FdI è al massimo e per la Lega è un test delicato, anche perché il rischio sarebbe stato quello di concorrere non solo con Meloni, ma anche con l’altro nome di peso della Lega, quello di Luca Zaia, pronto a scendere in campo se le regole attuali non cambiassero, mantenendo il vincolo dei tre mandati in regione.

Che tuttavia Salvini sia deciso a rincorrere non tanto Meloni quanto lo zoccolo duro dei suoi elettori più estremi, lo ha dimostrato l’invito esplicito al generale Roberto Vannacci a candidarsi con la Lega. Vannacci certamente si farà desiderare eppure, se alla fine la sua candidatura sotto il simbolo di Alberto da Giussano andasse in porto, Salvini avrebbe guadagnato un candidato molto competitivo sullo stesso terreno degli alleati-avversari di FdI.

La sfida sui balneari

Il capitolo di governo su cui Salvini sta più insistendo, invece, riguarda le concessioni balneari. L’Unione europea ne imporrebbe la messa a gara a rischio di una procedura di infrazione, ma il ministro dei Trasporti ha fatto capire di non voler «svendere i sacrifici degli italiani» in nome delle norme europee e la linea della Lega è quella di difendere gli interessi degli attuali proprietari delle concessioni. Fino a che punto, però? In questo caso fonti leghiste mettono in chiaro che la partita «dipende dal ministro Fitto». La Lega ha fatto la sua mossa nell’ultimo Cdm, quando Salvini ha svolto una informativa e inserito nella sua circolare esplicativa una proroga tecnica delle concessioni per tutto il 2024. Tuttavia l’onere di negoziare una via d’uscita con la Commissione europea per non rischiare la multa spetta al ministro di FdI, che dovrà anche intestarsi eventuali ripercussioni negative. E, anche se sarà probabilmente costretto a cedere perchè una soluzione per evitare le gare di fatto non può esistere, Salvini potrà comunque rivendicare di aver difeso le prerogative della lobby dei balneari.

Le regionali

Al netto delle schermaglie sulle europee e dei tatticismi sulla legge Bolkenstein, il vero punto su cui il rapporto già teso tra Meloni e Salvini rischia di spezzarsi sono le candidature alle regionali. Questo è il vero tema su cui il leghista è deciso ad andare al muro contro muro, «anche a costo di presentarsi divisi», azzarda un leghista. In discussione, infatti, è una delle prassi più consolidate della coalizione di centrodestra: il governatore uscente ha sempre diritto a un altro mandato. Meloni, forte dei risultati elettorali, è decisa a riequilibrare il numero di regioni governate da FdI: non ci è riuscita con il Trentino, dove la Lega ha tenuto duro riconfermando l’uscente Maurizio Fugatti, ma è decisa a farlo in Sardegna, dove ha un nome forte nell’ex “generazione Atreju” e attuale sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, che già parla da candidato presidente al posto del leghista uscente Christian Solinas. La battaglia è molto più che locale ma di sistema: se la ricandidatura dell’uscente verrà messa in discussione ora, salterebbe il banco ovunque in un domino che colpirebbe anche la Basilicata guidata da Forza Italia o l’Abruzzo sempre in quota Lega. Per questo la posizione fatta filtrare è netta: «Sosteniamo tutti gli uscenti», compreso il governatore uscente di FdI in Abruzzo, e «nessuna riunione di coalizione in programma» su questo. Il grande non detto – anche se per ora la Lega non intende aprire il capitolo – è che, se non cambierà il divieto di quarto mandato per i governatori delle regioni, nel 2025 si aprirà la partita in Veneto. Dunque quello di ora è un azzardo: non cedere nulla in questa tornata di regioni minori significa che, nel riequilibro chiesto da FdI e senza più Zaia candidato, Meloni rivendicherà la regione traino del nord-est.

Il rischio è quello di una corsa a due nel centrodestra il Sardegna, il minore dei mali a cui Salvini è disposto ad andare incontro per non mettere in discussione il principio della ricandidatura tenendo fuori il dibattito sul Veneto, già rivendicato ancora come «leghista» anche nel 2025 per voce del vicesegretario Andrea Crippa. Forza Italia sta tentando la mediazione, ma nella testa dei meloniani la questione è chiara: la Lega governa 5 regioni e una provincia autonoma, quattro sono di Forza Italia e solo tre di Fratelli d’Italia. Inaccettabile per Meloni, decisa a far pesare la sua superiorità elettorale, e una trincea sempre più difficile da difendere per Salvini, che per ora non intende arretrare.

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