Giorgia Meloni è il doppio letterario di Daniela Santanchè e si intende, da Euripide in poi, come il suo contrario. O forse è meglio dire era il suo doppio sino a quando non è approdata nelle nobili stanze di palazzo Chigi.

Prima di allora era, per sua autocertificazione, la underdog forgiata nelle sezioni missine di periferia, nutrita dalle teorie sul “socialismo tricolore” di Giano Accame e Beppe Niccolai, desiderosa di battersi per gli ultimi, se italiani si intende.

Statalista da precetto ideologico, giustizialista come da antico retaggio dell’ordine e della disciplina, per nulla avvezza a qualunque mondanità. Una perfetta attivista di partito come la si intendeva da prototipo.

Daniela Santanchè era ed è la fiera custode di una destra bling-bling inconciliabile con quella di colei che sarebbe diventata la primo ministro. Liberista in economia, convinta della superiorità a tutto tondo dei ricchi e i poveri, beh, i poveri che si arrangino a diventare ricchi, epigone del detto proverbiale del marchese del Grillo per il quale “io so’ io...” con quello che ne segue.

Spavalda e arrogante come chi si ritiene sciolta da qualunque vincolo perché seduta in vetta alla piramide delle classi per diritto simil-monarchico. Una donna che «non conosce nessuna vergogna», usando la definizione del suo ex mentore Paolo Cirino Pomicino.

Si è conquistata, ritiene, il suo biglietto in prima classe e dall’alto ostenta i suoi gioielli e i suoi privilegi quasi irridendo chi non ce l’ha fatta. Abita in una sorta di castello (vincolato a garanzia del debiti), ha un compagno sulla cui carta d’identità c’è scritto: “Principe Dimitri Miesko Leopoldo Kunz d’Asburgo Lorena Piast Bielitz Bielice Belluno S.P. Rasponi Spinelli Romano”.

In teoria due persone destinate a detestarsi o almeno a non avere a nulla da spartire in comune e forse nel profondo è ancora così. Però esistono le convinzioni private e le opportunità pubbliche.

Succede che una diventa la presidente del Consiglio e l’altra, per le alchimie degli equilibri politici, la sua ministro del Turismo. E in breve si avvia un processo di conversione non, come sembrerebbe logico, della seconda verso la prima ma viceversa.

Giorgia Meloni ha probabilmente necessità, lei underdog, di accreditarsi nel beau monde dei superdog. La prima zavorra che leva dallo zaino dei delle sue antiche convinzioni è quello statalismo che si porta male in società.

Afferma: «Le tasse ai commercianti sono un pizzo di stato». Santanchè non avrebbe saputo dire meglio. È il passo più eclatante verso quell’anarchismo da mercato senza regole che è una delle eredità del berlusconismo. Il più eclatante non il più significativo. La sua azione è tesa a compiacere di continuo ai ceti medio alti, la prateria da conquistare definitivamente.

I voucher, l’estensione dei contratti a tempo determinato, l'assegno di inclusione assai meno generoso del reddito di cittadinanza, l’introduzione graduale della flat tax. E infine l’assoluta indisponibilità al salario minimo, esistente pressoché in tutti i paesi evoluti, quando da noi si registra la vergogna di paghe orarie da tre euro.

La somma è l’ulteriore precarizzazione del lavoro, soprattutto dei giovani, condita dai regali agli imprenditori: «Non va disturbato chi produce» e nemmeno, par di capire dai suoi argomenti, va disturbato chi governa.

Restava da demolire l’altro pilastro del suo credo giovanile: il giustizialismo. Eccoci serviti. I guai di Santanchè e del sottosegretario Andrea Delmastro la fanno spingere sull’acceleratore della guerra ai magistrati per le loro supposte invasioni di campo. Il garantismo per i colletti bianchi e il silenzio indecente sul caso del figlio di La Russa segna la definitiva transizione verso la nuova Meloni berlusconizzata con tinte marcate di Santanchè.  Non per caso è la Pitonessa ad essere disinvoltamente passata da tutte le diverse sfumature della destra.

Daniela Santanchè potrebbe perdere la poltrona vista la sua oggettiva indifendibilità politica. Giorgia Meloni sta perdendo di peggio agli occhi dei più svantaggiati che l'avevano votata, sta perdendo la faccia. Ora ridisegnata con le fattezze della sua alter-ego a cui mai, nella versione genuina originale, avrebbe voluto assomigliare.

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