«Non potevo trovare un modo migliore di festeggiare un anno di segreteria. È passato un anno dalle primarie. È la dimostrazione che la direzione intrapresa un anno fa è quella giusta». Quando parla davanti alle telecamere di La7, il giorno dopo la vittoria di Alessandra Todde in Sardegna, Elly Schlein lascia trasparire la sua «gioia senza trionfalismi», come la descrive ai suoi. In realtà si leva anche qualche sassolino dalla scarpa.

Con stile, sta dicendo anche un’altra cosa: i dirigenti del suo partito che l’avevano avvertita che dopo il voto sardo l’aspettava un chiarimento interno (e cioè Stefano Bonaccini e la minoranza scontenta per il no al terzo mandato per i presidenti di regione) e quelli che la bersagliano in continuazione (come Vincenzo De Luca), per ora archiviano i malumori, vengono a Canossa e si complimentano con lei.

Nessuna subalternità

«La direzione giusta» del Pd, dice lei, è quella impressa dalla sua vittoria del 26 febbraio 2023, non quella degli sconfitti. E il successo della prima prova elettorale della primavera dimostra – provvisoriamente almeno – che lo «schema Elly» sulle alleanze, il suo motto «testardamente unitaria», è vincente. Se qualche dirigente aveva dubbi, è servito: la candidata presidente grillina a cui la segretaria ha dato fiducia prima degli altri – e con qualche innegabile tratto di dirigismo – ha vinto, sebbene per 2.600 voti.

Battendo lo sfidante Truzzu ha fermato la marcia trionfale di Giorgia Meloni. E «senza nessuna subalternità» da parte del Pd, ragiona ancora Schlein con i suoi, citando l’accusa che le fa la minoranza riformista: perché non solo il Pd è il primo partito dell’isola, davanti anche FdI, ma stacca i Cinque stelle. Per giunta, anche nella lista civica Uniti per Todde c’erano esponenti del Pd o vicini al Pd, come nella lista di Renato Soru.

Schlein in Sardegna ha rischiato e ha vinto: un’altra vittoria che altri non hanno visto arrivare, come la sua alle primarie di un anno fa. Una vittoria che «cambia il vento nel paese», dice lei: ora Meloni non è più invincibile. E il riottoso alleato Giuseppe Conte – con cui Schlein è volata a Cagliari domenica pomeriggio, seduti in aereo in poltrone quasi vicine, fra loro solo l’ex calciatore Marco Tardelli – deve prendere atto degli effetti dell’alleanza, dove si materializza.

Certo, il presidente M5s resta refrattario alla formula «campo largo», davanti ai cronisti la corregge in «campo giusto», ma il senso di quello che è successo è chiaro anche dalla sua parte. A giugno ci saranno le europee, elezioni sanguinosamente competitive, ma la Sardegna può essere un nuovo inizio sul piano nazionale (forse anche europeo, visto che a Bruxelles in Cinque stelle non hanno una casa politica). Dal canto suo, Todde ha promesso che andrà a dare una mano in Abruzzo, dove si vota il 10 marzo, con un’alleanza ancora più larga di quella sarda, con dentro Iv e Azione.

Per Schlein l’Abruzzo è il prossimo obiettivo. Fino a qualche settimana fa sembrava una regione non contendibile, adesso la premier e FdI sono preoccupati per la tenuta del loro presidente Marco Marsilio. Tanto più dopo il disastro sardo. Poi andranno al voto la Basilicata e il Piemonte: ma lì sarà difficile fare accordi con i grillini. In Piemonte perché fra il Pd locale e i Cinque stelle c’è una lunga storia di conflitti: è quello che ha denunciato l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, che si è battuto per la Tav, e che è agli antipodi delle posizioni del Movimento. In Basilicata perché il Pd resta fermo sul candidato presidente Angelo Chiorazzo, che per M5s è fumo negli occhi (per la verità anche per una parte della sinistra sociale, Arci in testa).

Intanto la minoranza Pd deve prendere atto che Schlein ha vinto la sua prima partita. Persino Carlo Calenda, insofferente al grillismo, deve ammettere che almeno per le amministrative «con Conte è impossibile non parlare» anche se dal voto sardo non trae «lezioni di natura generale». Ma è già una cosa. Matteo Renzi applaude alla «grillizzazione» del Pd che aprirebbe «per le europee uno spazio straordinario al centro»: ma il principale ostacolo a riempire quello spazio è proprio lui.

Quanto ai riformisti dem, ora è più difficile contestare lo «schema Schlein», anche sulle europee: le liste ancora non ci sono, la segretaria si prende tutto il tempo per comporre «la squadra» e per decidere per sé stessa. E ora ha tutto l’agio di fare alla sua maniera.

Parlano i giallorossi

Sull’alleanza con M5s nessuno può più contestare niente. Anzi, parlano quelli che l’hanno sostenuta ante Schlein, i padri del «campo largo». Romano Prodi, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, Francesco Boccia. E Nicola Zingaretti, tante volte crocefisso sull’altare giallorosso, spiega a Domani: «Finalmente avanza un po’ di giustizia e correttezza nelle analisi».

«Le alleanze non vanno fatte a tutti i costi ma a tutti i costi bisogna provarci. In modo particolare nei sistemi a turno unico: elezioni politiche e regionali. Invece a volte ha prevalso la demagogia come l’accusa sulla presunta “subalternità”. Il processo unitario non è uno schema politicista ma una strategia chiara: radicamento sociale su contenuti chiari e cultura delle alleanze sociali e politiche. Elly ha avuto il coraggio e la coerenza di farlo. Dopo le europee avremo la conferma che le opposizioni sono la maggioranza nel paese. Questo cambierà tutto. E il Pd, grazie a questa linea, si farà trovare pronto».

Schlein è già pronta. In questo anno di segreteria ha voluto «profilare» il suo Pd su battaglie che lo rendano riconoscibile fra la gente: salario minimo, sanità e scuola pubblica. Prima, ragiona con i suoi, «se si chiedeva cosa voleva il Pd, era difficile ricevere una risposta chiara. Ora no».

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