Le parole-chiave con cui Elly Schlein si è candidata ieri alla segreteria del Pd tra commozione, emozioni, Bella ciao, sono identità e pluralismo. «Non siamo qui per una resa dei conti identitaria, vogliamo salvaguardare il pluralismo perché il Pd non è un partito personale, ma senza più rinunciare ad avere una idea chiara sulle questioni. Tutte le culture politiche del Pd sono di fronte alla stessa sfida: come cambiare il modello di sviluppo neoliberista che si è rivelato insostenibile».

Identità e pluralismo compongono l’ossimoro su cui si è fondato il Partito democratico fin dall’inizio, controvento rispetto a un mondo e a una politica italiana che andava nella direzione opposta. I partiti personali e monoculturali, la cultura del leader, s’intende, che si sentiva libero di cambiarla a suo piacimento, a condizione che l’intendenza seguisse senza obiettare. Così fece Matteo Salvini con il passaggio dalla Padania allo slogan Prima l’Italia, che oggi gli rimprovera il giro del vecchio capo Umberto Bossi, così si sono mossi i notabili del Movimento 5 stelle chiamati a spostare la piattaforma Rousseau dal Conte uno al Conte due fino a Mario Draghi. O tutti insieme o i dissidenti fuori.

Il pluralismo delle voci è rimasto così un dono avvelenato per il solo Pd, unito all’impossibilità di prendere qualsiasi posizione che non fosse il salto nel governo, a sostegno di una maggioranza di qualsiasi colore. Sarebbe una novità storica un congresso combattuto a colpi di idee, due profili diversi per il partito, che si concludesse senza nuove scissioni. E quasi un miracolo: perché tutta la storia del Pd conduce da un’altra parte.

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Il bazar dei valori

Sottigliezze teologiche. Impuntature verbali. Scomuniche reciproche. Oggi il manifesto dei valori del Pd sembra una tavola di legge, di cui non si può eliminare neppure uno iota, ma nel 2007, quando il documento fu approvato, non fu così.

I cento costituenti del nuovo partito, segretario Walter Veltroni, dovevano comporre un documento agile, in pochi punti, che potesse servire come carta di identità del nuovo partito. La prima riunione finì invece in bagarre. Un concilio di Nicea, con disquisizioni che anticipavano, già allora, lo scisma clamoroso dei gruppi dirigenti e silenzioso degli elettori che sarebbe seguito negli anni successivi.

Tra i cento c’erano ex diessini, ex popolari, ex Margherita, laici, clericali, mangiapreti positivisti e senatrici con il cilicio. Il 12 gennaio 2008 nel corridoio dell’ultimo piano del Nazareno andò in scena un culture clash senza precedenti nella storia della sinistra italiana. «Il termine “anima laica” è un ossimoro», si udì protestare. «Io in quanto laico non credo di avere un anima», si ribellava il matematico Piergiorgio Odifreddi.

«E invece ce l’hai anche tu, ne sono sicura», lo catechizzava la senatrice Paola Binetti, che nelle interviste dichiarava in quegli anni di indossare il cilicio e di considerare l’omosessualità una malattia. Alla fin si scambiarono i telefoni. «...6163? È il numero del Padreterno, la Trinità: sei uno sei tre...».

Nella sala si era presentato Giuliano Ferrara, in quel momento promotore di una campagna sulla moratoria dell’aborto e pronto a candidarsi con una “lista pazza” a sostegno della battaglia (senza grande fortuna elettorale, va aggiunto), in qualità di giornalista interessato a seguire il dibattito.

Il presidente della commissione che doveva compilare la carta dei valori era Alfredo Reichlin, decise di far entrare non solo Ferrara ma tutti i giornalisti che così poterono essere testimoni della seduta costituente del nuovo partito.

Il tema in discussione era la laicità. Odifreddi voleva eliminare dal manifesto qualsiasi riferimento all’importanza pubblica della religione: «Chi di voi sarebbe disposto a sottoscrivere la rilevanza pubblica di Scientology?». Una disputa che fu seguita da quella su un altro tema solo in apparenza laterale: mettere nel testo la parola famiglia al singolare, o famiglie?

«Sto con il mio compagno da quattro anni, allo scadere dell’anniversario andremo a convivere», annunciò il ds Andrea Benedino, in una stagione cupa per i diritti. Qualche mese prima il Family Day in piazza del Laterano, sponsorizzato direttamente dal cardinale Camillo Ruini, aveva bloccato la legge sulle unioni civili, i Dico: obiettivo della piazza erano i cattolici Romano Prodi, il presidente del Consiglio, e la ministra della Famiglia Rosy Bindi (al suo posto c’è oggi l’ex radicale Eugenia Roccella che intervenne nella piazza ruiniana).

«Dobbiamo cambiare tutto, con questo linguaggio si crolla addormentati» intervenne a un certo punto l’imprenditrice Marina Salamon. E proprio in quel punto l’anziano Reichlin, allievo di Palmiro Togliatti, decise che ne aveva abbastanza. Afferrò il microfono, paonazzo in volto, ed esplose: «Qui stiamo facendo un par-ti-to! Avete capito? Un par-ti-to! Un partito è una grande impresa culturale, non si fa con la Doxa», scandì con un filo di voce.

«Il Pci non si comprende senza il dialogo tra Gramsci e Togliatti. La Dc non si può capire senza Sturzo e Maritain. Se preferite scrivere quattro paginette piene di I care e I want, fatele da soli, io me ne vado!». Si alzò in piedi, tutti a trattenerlo, un trambusto, qualcuno gridava: «Restiamo calmi, sennò chissà cosa scrivono i giornalisti qui fuori...». Gianni Cuperlo si voltò e incrociò lo sguardo di noi cronisti: «Ma i giornalisti sono dentro...».

Una Babele. Una settimana dopo la scena fu replicata. Questa volta la commissione sui valori del Pd era scivolata sui fondamentali: l’antifascismo. I costituenti si erano dimenticati di precisare che il Pd sarebbe stato un partito anti fascista. «Una cazzata», sintetizzò Antonio Polito, in quel momento senatore e segretario cittadino della Margherita a Napoli. «Qui siamo tutti preoccupati chi degli omosessuali, chi della famiglia, chi del mercato, e ci siamo dimenticati dell’anti fascismo». Che alla fine, per fortuna, rientrò. Stava a cuore a tutti e tra gli estensori del manifesto, fortemente voluto da Veltroni, c’era anche Piero Terracina deportato ad Auschwitz.

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Per dire che non era affatto facile costruire l’identità culturale di un nuovo partito, anzi, di un partito nuovo, come togliattianamente si usava dire. Ma anche che tra i cento costituenti di quindici anni fa c’erano nomi rappresentativi delle radici di provenienza e inseriti nella storia italiana. Con tutto il rispetto per gli 89 che oggi sono chiamati a riformare (riscrivere?) quel lavoro.

Il guaio, semmai, è che subito dopo aver composto il manifesto dei valori si capì che in molti perfino tra i fondatori erano riluttanti a riconoscersi nel partito appena nato. Cominciò la serie infinita delle scissioni: da destra, da sinistra, dal centro, dopo poco tempo nel Pd non ci furono né Odifreddi né Binetti. E oggi elettori più che dimezzati rispetto al 2008: da 12 milioni ai 5,3 milioni che il 25 settembre hanno ancora avuto la voglia di votare per il Pd.

Un biglietto scaduto

«Non è andato tutto bene», ha detto ieri Elly Schlein al Monk, con una buona dose di eufemismo. Il minimo che si possa dire. A riprendere in mano il risultato finale di quel lavoro costituente, il manifesto del 2008, si respira l’aria positiva e ottimista di quegli anni, l’effetto lungo degli anni Novanta, quando le sinistre erano al governo in quasi tutti i paesi dell’Unione europea e negli Usa c’era il presidente democratico Bill Clinton.

L’entusiasmo per la globalizzazione («un processo che instaura legami sempre più fitti e irreversibili di interdipendenza fra nazioni, popoli e culture a livello planetario. Un’intensa circolazione di persone, di merci, di capitali, di idee, di risorse attraversa e trasforma i continenti, determinando geografie umane, economiche e finanziarie che sfuggono alle definizioni e ai controlli tradizionali. È questa realtà in costante mutamento che rende necessario un ripensamento della politica e una ridefinizione dell’idea e dei poteri degli Stati nazionali»).

L’idea che alla sinistra toccasse arbitrare, ma non più dirigere, i processi di liberalizzazione («una gran parte degli assetti sociali e delle strutture di governo dello Stato e dell’economia italiani è diventata anacronistica e non più in grado di rispondere alle nuove sfide della mondializzazione... Compito dello stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare le condizioni di contesto di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità»).

Il lavoro che «si è enormemente differenziato, anche perché la velocità dei processi innovativi impone flessibilità e frequenti cambiamenti nel corso della vita lavorativa». Sullo stato della democrazia italiana il manifesto del Pd segnalava l’esistenza di «un vuoto politico molto pericoloso, che ha dato spazio alla demagogia populistica, all’arroganza di ristrette oligarchie e anche a poteri opachi che tendono a sottrarsi al controllo della legge e delle istituzioni democratiche». Ma non indicava la strada per riempire quel vuoto: a ben vedere, la parola maggioritario ricorre una sola volta, quando viene definita la vocazione maggioritaria del Pd e l’obiettivo di costruire «un partito nuovo».

Il documento era destinato a essere spazzato via dagli sviluppi successivi. La recessione globale e il simbolico crack della Lehman Brothers nell’autunno 2008, alla vigilia dell’elezione a presidente di Barack Obama. Lo sconquasso dell’Europa tra il 2012 e il 2016, con la crisi dei debiti sovrani.

In Italia la fine del bipolarismo fondato su centrodestra e centrosinistra che era la cornice che motivava il Pd e il succedersi di governi tecnici o di larghe intese o di unità nazionale (ieri Elly Schlein ha ricordato che dopo il voto dei 101 franchi tiratori contro Romano Prodi candidato al Quirinale nacque un governo Pd-Pdl e che le larghe intese sarebbero diventate «strutturali», va aggiunto che a presiedere quel governo Giorgio Napolitano chiamò Enrico Letta).

La crescita delle forze populiste e sovraniste, nel 2016 della Brexit e della elezione di Donald Trump, ma anche del fallimento del referendum promosso da Matteo Renzi per cambiare la Costituzione. Infine, la pandemia, la guerra in Ucraina, la crisi energetica, le migrazioni, l’impoverimento crescente del ceto medio hanno richiamato in campo il caro vecchio Stato che sembrava estinto, la necessità di politiche pubbliche, su scala nazionale e sovranazionale, europea.

In sintesi, e con molta approssimazione: di fronte a questi cambiamenti il biglietto identitario del Pd risultò prematuramente scaduto, era già fuori tempo massimo quando fu approvato, perché il tempo stava cambiando. Le destre si sono presentate all’appuntamento con la storia più attrezzate ad affrontare una stagione che richiedeva protezione, sicurezza, porte chiuse e confini blindati. Le destre hanno interpretato in senso restrittivo le domande della crisi.

Mentre gli esponenti del Pd si confermavano ottimi professionisti del governo, ma incapaci di rappresentare una parte di società che si sentiva più fragile. In più, le destre hanno potuto contare su un apparato mediatico potente e trasversale, costruito per eliminare moralmente gli avversari politici. Nello stesso momento in cui la stampa liberal e democratica in Italia (ma non solo) arretrava, veniva smantellata pezzo a pezzo, si ritrovava debole, balbettante, isolata, al pari di quello che era stato a lungo il partito di riferimento.

La redistribuzione

Troppo per pretendere che un congresso del Pd cambi il corso di un processo storico. Al Monk, però, ieri sono stati illuminati alcuni pezzi di questo mosaico di non-rappresentanza. Nel discorso di presentazione della candidatura alla segreteria del Pd Elly Schlein ha più volte ripetuto l’aggettivo pubblico: sanità pubblica, scuola pubblica.

Ma anche temi da tempo assenti dall’agenda della politica italiana (e delle leadership Pd): il diritto alla casa, la cura, i congedi parentali, le case di comunità, le non autosufficienze, la questione meridionale. Si è commossa ricordando l’amico Antonio Prisco, rappresentante della Nidil Cgil per i riders, morto nel 2021 a 37 anni. Ha pronunciato la parola proibita, vietata, indicibile negli ultimi trent’anni: redistribuzione. Redistribuzione dei redditi, delle quote di potere.

È una parola che fa paura, perché allude a qualcuno che dovrà ricevere e qualcuno cui sarà tolto qualcosa. Di certo, ad esempio, redistribuzione significa più potere per le donne, anche nel partito. E più rispetto: dire come ha fatto Bonaccini con Nardella che sarà scelta come vice «una sindaca del Sud» appare un passo indietro.

Foto Guido Calamosca/LaPresse

È solo un abbozzo di progetto e il congresso deve ancora cominciare. Un percorso in cui spicca il riferimento al modello spagnolo: il governo di Pedro Sanchez che ha conquistato il partito dopo essersi dimesso da ogni carica e sconfiggendo la presidente della Andalusia Susana Díaz. In cui non è chiaro ancora come dovrà essere il partito, nella sua identità e radicamento sociale, come ha detto Schlein, definendolo «una sponda di raccolta».

Non serve un nuovo manifesto, ozioso discettare di ordoliberismo e Marx, né si sente l’urgenza di altre sottili discussioni sulla natura del partito, «voluta/ disvoluta», l’avrebbe definita Eugenio Montale. Le due culture di riferimento fondative del Pd, quella di matrice Pci e quella cattolico democratica, sono per motivi diversi a disagio nel nuovo Pd che si prospetta: in quello per ipotesi guidato da Stefano Bonaccini e ancor più in quello guidato da Elly Schlein.

Su Bonaccini pesa l’immagine di uomo forte e accentratore, su Schlein un senso di estraneità, nel caso dei cattolici democratici, o di mancato riconoscimento, nel caso dei post-comunisti alla Goffredo Bettini. Eppure per chi viene da una cultura cattolica dovrebbe essere il pane quotidiano, essere allo stesso tempo singolari e plurali, più complicato forse per chi torna ad avere nostalgia della rivoluzione del 1917.

I riformisti, che ora si fanno chiamare laburisti, si riuniranno il 7 dicembre: il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha già annunciato il suo addio al partito in caso di vittoria di Schlein. Tutti insieme sono di fronte alla sfida: se non quella del modello neoliberista, almeno il senso dello stare insieme, nel Pd.

Non è il momento delle ideologie. I partiti sono soggetti storici, sono dentro il contesto in cui si trovano ad agire. Oggi, nell’Italia di Giorgia Meloni, è necessario chiedersi in concreto quali siano i meriti e i bisogni che non hanno rappresentanza o che la destra al governo lascia indietro e costruire per loro una casa politica. Su questa base va valutata la scelta di chi guiderà il Pd: la sua contemporaneità. Identità e pluralismo, certo.

Ieri al Monk sono apparsi scampoli di realtà, a dispetto della caricatura che vorrebbe la neo-candidata come figura mediatica. Ma non c’è niente di rassicurante in questa operazione. La candidatura di Elly Schlein può consolare nel breve periodo chi si sente smarrito nell’Italia della destra, ma ha senso e forza soltanto se esce dai recinti in cui tutti si conoscono già, va oltre gli amichettismi (by Fulvio Abbate) e prova a cercare l’Italia senza redistribuzione, senza giustizia, senza uguaglianza.

È la «sponda di raccolta» da fare: un lavoro nella società paziente e lungo, l’opposto della fiammata di immagine. Solo con questa spinta l’onda si potrà alzare.

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