Una visita a Crotone, a rendere omaggio alle vittime della strage di Cutro, evitando il più possibile i riflettori, che del resto ieri erano tutti per il presidente Sergio Mattarella. Niente dichiarazioni per un giorno, per la neosegretaria Pd Elly Schlein: per non scatenare altre polemiche, dopo quelle che le sono piombate addosso da quando, mercoledì, ha chiesto le dimissioni del ministro dell’interno Matteo Piantedosi.

A Crotone Schlein è accompagnata da un drappello di parlamentari: i calabresi Nico Stumpo, Vincenza Rando, Antonio Nicita, Nicola Irto; e Matteo Orfini e Francesco Verducci, fra i più impegnati sulla questione dei migranti.

Una scelta di compostezza, la sua. Nella confusione post-rivoluzionaria di casa dem, Schlein si muove già da segretaria. Anche se la proclamazione ufficiale arriverà il 12 marzo all’assemblea nazionale dove dovrà indicare (e far approvare) il presidente del partito e i nomi della direzione. Potrebbe anche annunciare i nomi della sua segreteria.

Numeri ballerini

Ma le scelte ovviamente ancora non sono state fatte, e difficile che ci metterà la testa prima della manifestazione contro il «pestaggio squadrista», dove sarà, domani a Firenze. Dai gazebo la richiesta di cambiamento è stata chiara e forte. Eppure per darle gambe la segretaria non deve fare passi falsi proprio all’inizio della sua corsa. Circola l’ipotesi che possa offrire la presidenza a Stefano Bonaccini, ma non ci sono conferme, Sarebbe un bel gesto, e bel gesto sarebbe accettare da parte dello sconfitto. Che al Corriere della sera ha ripetuto la sua disponibilità «a dare una mano».

Del resto, in assenza di un accordo con l’area riformista, perdente ai gazebo ma vincitrice nei circoli e forte nel partito, i suoi dovranno valutare bene i numeri. In assemblea la maggioranza è apparentemente solida: il 53,75 per cento di voti presi le consegna 333 delegati contro i 267 eletti dalle liste dell’avversario, che ha preso il 46,25; la differenza è di 66 voti.

Poi però bisogna aggiungere circa 330 membri di diritto: 100 parlamentari, 118 segretari federazione, 21 segretari regionali, più la commissione nazionale del congresso, i membri esteri, la commissione di garanzia, i sindaci dei capoluoghi di provincia. Non tutti hanno diritto di voto. Ma in questo secondo gruppo la maggioranza è per Bonaccini.

Non sembra un caso che in queste ore anche dai sostenitori di Schlein, almeno dai dirigenti Pd, arrivano dichiarazioni unitarie. Come quelle consegnate a Radioimmagina, l’emittente web della casa, da Stefano Vaccari, ex capo dell’organizzazione: «Per il Pd sarà fondamentale perseguire con chiarezza la linea politica premiata dagli elettori delle primarie», assicura, ma chiosa: «Il dialogo e la condivisione con Bonaccini e con chi lo ha sostenuto produrrà, ne sono certo, un nuovo gruppo dirigente, unito e pronto a un grande lavoro comune». Il suo probabile successore, Marco Sarracino, in questi giorni non parla. Ma chi lo conosce sa che è dello stesso avviso.

Il partito dei sindaci

Il risultato dei gazebo peraltro ha dato uno scossone agli equilibri interni del Pd, a partire dalle città, dove Schlein ha stravinto. Alle primarie i primi cittadini erano in larga maggioranza schierati con il “pragmatismo” di Bonaccini; il famoso “partito dei sindaci”, contestato da Schlein e i suoi ma espressione cara al primo cittadino di Bari Antonio Decaro. A Bari ha vinto Bonaccini.

Ma in quasi tutto il resto d’Italia no, e in questi giorni le cronache locali si sono riempite di titoli che parlano di «ribaltoni» e di sindaci amati, sì, per il loro buon governo, ma bocciati sulla linea politica nazionale.

Qualche esempio: Torino Stefano Lorusso ha spinto per Bonaccini, che però è stato più che doppiato dalla sfidante. A Firenze Dario Nardella era uno degli uomini-macchina del presidente dell’Emilia-Romagna, ma Schlein ha vinto 70 a 30. E per di più nelle contemporanee primarie per il segretario regionale toscano, Emiliano Fossi, pro Schlein, ha battuto Valentina Mercanti, appoggiata dal presidente Eugenio Giani, altro ultrà di Bonaccini.

A Napoli Gaetano Manfredi non ha votato alle primarie, ma suo fratello Massimiliano, consigliere regionale, era il regista della macchina del consenso Bonaccini. Solo che la macchina si è inceppata, ed è finita 54 per cento per lei e 46 per il favorito ai pronostici.

Stesso schema a Roma: il sindaco Roberto Gualtieri spingeva Bonaccini, e aveva portato sulla stessa posizione quasi tutti i consiglieri comunali del Pd, e schierato anche Alessio D’Amato, lo sconfitto candidato presidente della regione: ma è finita 69,1 per Schlein e 31,9 per lui.

Insomma ora questi sindaci si ritrovano in minoranza, almeno nella geografia interna del Pd della loro città. Con il paradosso che la narrativa del partito dei sindaci, sconfitta, ha finito per indebolire, in qualche misura, i sindaci stessi.

Ma i vincitori sono prudenti. «Non parlerei di sconfitta del partito dei sindaci ma di una spinta ad essere aperti, innovativi e radicali», ragiona Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Lombardia alle ultime regionali, dove è stato sconfitto (ma non a Milano), «Penso alla Lombardia dove Schlein prende molto sia nei grandi centri dove abbiamo battuto Fontana sia in luoghi dove la destra ci ha sconfitto».

Insomma, rassicura, il giudizio sui sindaci non c’entra: in effetti a Brescia l’ex sindaco Emilio Del Bono, bonacciniano, alle regionali ha preso 35mila preferenze, ed è l’eletto più votato nella storia del consiglio regionale, ma alle primarie ha vinto Schlein. Come a Bergamo, il cui sindaco è Giorgio Gori, riformista doc, come i sindaci di Lodi, Mantova, Varese e Cremona.

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