«La questione del sostegno alla resistenza ucraina è oggettivamente una linea rossa. E dirlo non significa voler creare un problema alla nuova segretaria quanto invece confermare e garantire la vera identità di un partito di sinistra di governo in un paese occidentale. Rileggersi le dichiarazioni Sanna Marin (prima ministra finlandese, socialdemocratica e pro Ucraina, ndr)». Enrico Borghi, riformista del Pd e membro del Copasir, prova a fare un ragionamento serio sulla questione della pace e della guerra contro l’Ucraina su cui, in queste ore, nel Pd si battibecca pericolosamente come in un talk show. Elly Schlein, la nesegretaria, ha una storia pacifista, ha votato la mozione del suo partito per l’invio delle armi in Ucraina, si è astenuta sulla mozione dei Cinque stelle e non ha partecipato al voto sulla mozione “pacifista” dei rossoverdi, insieme a Laura Boldrini, Alessandro Zan e i deputati di Articolo 1 (Speranza, Scotto, Stumpo e Cecilia Guerra), mentre il grosso del suo partito votava no. Ma durante la campagna elettorale la posizione di Schlein si è via via fatta più nitida: sì all’invio delle armi ma anche sì al maggior impegno in un’azione diplomatica per la pace da parte dell’Europa.

Un regalo a Meloni

Bene, più o meno. Però, ragiona ancora Borghi, il tema di una posizione nettamente filoatlantica è cruciale. Perché nei prossimi mesi potrebbe verificarsi un incattivimento dell’attacco russo (non è uno scenario solo teorico). In questo caso l’Italia potrebbe essere tenuta a mandare nuove armi. Il decreto votato a fine anno autorizza gli invii per tutto il 2023. Ma se la premier Meloni fiutasse qualche incertezza nel Pd, o puntasse a spaccarlo e a fermare un riavvicinamento con i Cinque stelle, e chiedesse al parlamento un nuovo voto? L’occasione si potrebbe porre alla camera  quando arriverà il decreto umanitario sull'Ucraina, ma soprattutto il 22 marzo quando la premier riferirà in aula prima del prossimo Consiglio europeo di Bruxelles. La maggioranza preparerà una risoluzione ad hoc. Il Pd che farà?

«Non possiamo fare a Giorgia Meloni il regalo del monopolio atlantista», ragiona Borghi. E anche: «Il conflitto in Ucraina ha molteplici implicazioni sugli assetti internazionali e sulla nostra sicurezza: immigrazione irregolare, insicurezza alimentare in Africa, rischio innesco terrorismo, energia. Se ci isoliamo dai nostri partner e alleati, come pensiamo di fronteggiare tutto questo da soli?».

Niente da chiarire

Dall’altra parte, cioè dal lato dei sostenitori Schlein. I più scatenati, come la sardina Mattia Santori, si lasciano scappare espressioni poco digeribili sul presidente Zelensky. I più sennati invece capiscono la delicatezza della questione e buttano acqua sul fuoco: «La linea resta quella, chiediamo più Europa», dice Marco Furfaro. «Non c’è niente da spiegare», è il messaggio di Peppe Provenzano, ex vicesegretario del Pd e papabile del gruppo dirigente della nuova era schlieniana: «Il Pd ha votato tutti i decreti per l’invio delle armi in Ucraina e lo ha fatto anche Schlein. Chi solleva questo tema lo fa più che altro per questioni interne al partito, per mettere un po’ di polemica in questa fase». E Francesco Boccia: «Elly era in parlamento nei mesi scorsi, non era da un’altra parte», dice a La7. Dunque la nuova segretaria non cambierà la linea del Pd perché «il tema non è mandare nuove armi né la sudditanza alla Nato ma allo strapotere degli Stati Uniti nella Nato. Io vorrei una Nato guidata dall’Europa, soprattutto vorrei che le cose che accadono in Europa le decidono gli europei». Ma qui la questione, almeno dentro il Pd, si fa un po’ scivolosa. Tant’è che a stretto giro il presidente della Puglia Michele Emiliano, già grande elettore di Stefano Bonaccini, chiede una riunione nel Pd per chiarirsi le idee sul punto.

Ma per Schlein è presto. In queste ore affronta la delicata scelta di che tipo di collaborazione offrire alla minoranza sconfitta ai gazebo, a partire dal suo sfidante Stefano Bonaccini. Che le ha offerto una mano, ma aspetta ovviamente che la prima mossa sia lei a farla.

Ieri a Montecitorio la neosegretaria, circondata dai “suoi” deputati (pochi per ora, 24 su 69), ha salutato con affetto i sostenitori del presidente dell’Emilia-Romagna. I cronisti hanno inutilmente sorvegliato una conversazione con Lia Quartapelle, già responsabile esteri del Pd con Enrico Letta e fra le prime a chiederle di confermare la linea netta che l’ex segretario aveva dato al partito sul sostegno a Kiev. Le si sono avvicinati anche Piero De Luca, Marianna Madia, Rachele Scarpa, Anna Ascani. Sorrisi e abbracci a tutti.

Ma la salute del futuro Pd, o per lo meno la sua unità, dipende innanzitutto dal rapporto che la nuova segretaria imposterà con la minoranza (che è maggioranza nei gruppi parlamentari). E il rapporto dipende in primis dalle rassicurazioni che la minoranza riceverà proprio sul tema dell’appoggio alla resistenza ucraina in linea con le richieste di Kiev e con gli altri paesi europei della Nato.

I più vicini a Schlein forniscono rassicurazioni, raccontano persino che c’è un fatto personale a segnare il sentimento della segretaria: «La famiglia paterna di Elly ha origini ucraine. Il suo bisnonno veniva da un villaggio vicino Leopoldi. Da lì è emigrato negli Stati Uniti». E poi Schlein ha partecipato da volontaria alla campagna elettorale per Obama. Più filoatlantica di così?

Il partito del Copasir

Ma non è un tema su cui si può scherzare troppo nel Pd. Perché è il partito che esprime il presidente del Copasir, Lorenzo Guerini, che a parte essere il capo della minoranza, è il ministro della Difesa del governo Draghi, durante il cui mandato un anno fa è iniziata l’invasione russa. Che si è mosso di concerto con il suo premier e il suo segretario di partito, schierandosi subito al fianco di Kiev. In perfetto e solidissimo asse con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, peraltro fondatore del Pd.

Quando, nel corso di quel governo, il leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte cominciò a dare segni di dissociazione dalla linea della maggioranza, il suo ministro degli Esteri Luigi Di Maio fu costretto ad anticipare i tempi della scissione (che pure aveva già in testa): perché se voleva restare in quel dicastero delicato non poteva restare in un partito che si dissociava dalla funzione europea che il governo stava assolvendo. Appoggiandosi soprattutto, se non esclusivamente, sul Pd.

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