Fair play. Figuriamoci se giovedì era la giornata per litigare fra le opposizioni. Il guaio è tutto dalla parte della maggioranza che si spappola sul Mes: il no votato dalla Camera è in primis una rappresaglia contro alla Commissione europea per un Patto di stabilità che penalizza l’Italia e in secundis l’esecuzione del non-salviniano Giancarlo Giorgetti, in pratica un congresso della Lega celebrato nell’aula di Montecitorio, sbrigativo e spiccio come la fretta del vicepremier di avere uno spot per le prossime europee.

Eppure, oltre il ciclopico disastro delle destre, c’è comunque un disastro minore. Si è consumato nella minoranza: spappolata come la maggioranza, con meno conseguenze per il paese. Giovedì Pd e M5s hanno chiesto con foga le dimissioni di Giorgetti, insieme e separati.

A nome dei dem Enzo Amendola ha invitato il ministro a «trarre le conseguenze» del voto opposto al suo annuncio. Giuseppe Conte ha fatto un nuovo numero in aula: «Diteci cosa avete ottenuto in Europa? Siete tornati non con un patto, ma con “pacco” di stabilità e decrescita. Una decrescita infelice».

«Hanno perso in Europa, e con quella bruciante umiliazione hanno pensato di fare una ritorsione su una questione completamente diversa», si è sfogata Elly Schlein a fine seduta. Ma anche Atene non ride: il Pd ha votato sì al Mes con Azione, Italia viva e +Europa, il M5s ha votato no, astenuti i rossoverdi.

Unitari per due

Giovedì non era la giornata per l’autocoscienza sui futuri alleati. Eppure ora il tema è: si può essere unitari per due? Il voto di giovedì mette in luce – non ce n’era bisogno – che non c’è “solo” la questione delle armi all’Ucraina e anche quella del cessate il fuoco in medio oriente («umanitario» per il Pd, disarmista per M5s), ma anche quello del Mes: questione non banale, pari alle altre, nel caso in cui i due partiti volessero non solo «federarsi» ma mettere insieme un programma di governo, tralasciando poi il dettaglio che M5s ha votato contro un testo che tre giorni prima Conte aveva rivendicato, trascinando la premier davanti a un gran giurì per aver detto di averlo ratificato «con il favore delle tenebre».

«Il Mes è un problema enorme per la maggioranza, il tema delle opposizioni per oggi non si pone», assicurava giovedì in Transatlantico il deputato Matteo Orfini, uno insospettabile di intelligenza con i grillini. Anche se, poi ammetteva, «certo, Conte in questo periodo ha infittito il giochino di attaccare noi anziché la destra. Ma sono le europee, bellezza».

Fra gli amici della segretaria c’è chi fa notare che la «compostezza» ha anche una ragione contingente: in queste settimane si chiudono gli accordi alle amministrative. Ma nelle vene del gruppo dirigente dem la linea del “porgi l’altra guancia” al Conte rampante comincia a non essere più tanto condivisa.

Mercoledì al Senato la segretaria, interrogata dai cronisti, ha risposto con il ritornello di sempre: «Gli elettori e le elettrici ci chiedono di lavorare insieme. Il mio avversario è il governo di Giorgia Meloni. Io continuerò a essere massimamente unitaria sui temi».

La sindrome Letta

La ricostruzione del centrosinistra, insieme alla crescita del Pd dai minimi che bordeggia, sono obiettivi vitali per Schlein. Che persegue cercando la sfida diretta con la premier Meloni e rifiutando l’agonismo diretto con Conte. Una postura che ricorda molto, forse troppo, quella che Enrico Letta ha tenuto ostinatamente fino alla caduta di Draghi.

Sin da quando è tornato da Parigi, nel marzo 2021, per raccogliere la guida del Pd dall’abbandono di Zingaretti, ha fatto voto di non rispondere all’allora alleato della maggioranza, scalciante per essere stato disarcionato da palazzo Chigi. Per un anno il dem si è cucito la bocca, anche lui «massimamente unitario» e anche lui «il nostro popolo chiede unità».

Peccato che nelle rielezioni del Colle, gennaio 2022, il leader M5s ha tentato una combine con Salvini per imporre Elisabetta Belloni, tentando di fregare il Pd che già aveva incardinato la rielezione di Mattarella. Letta zitto. Qualcosa si è fatto scappare a maggio, quando una riunione a quattr’occhi con Conte all’Arel (dove venivano convocati i conversari da cui non doveva filtrare nulla) è finita a urla distintamente udibili oltre più porte: si discuteva del cambio di atteggiamento di Conte sulle armi all’Ucraina e dell’inceneritore romano.

Lì lo staff del Nazareno aveva ammesso «posizioni non pienamente convergenti». Ma è stata un’eccezione. Anche se di lì in avanti Conte è diventato sempre più aggressivo e rancoroso verso il Pd: perché lo considerava il mandante della scissione di Luigi Di Maio (con Draghi, lo ha ricordato qualche giorno fa alludendo a «chi voleva il nostro assassinio politico»).

Poi perché aveva vinto le amministrative di giugno, che M5s ha perso male. Letta sempre zitto. Di lì si è arrivati al precipizio di luglio, quando l’ex premier ha ritirato la fiducia a Draghi, fornendo alle destre l’assist per l’affondo. A quel punto Letta ha parlato: ha definito Conte «irresponsabile» e «inalleabile». Ma era poco, era tardi, l’alleanza era ormai impraticabile, e per il Pd le elezioni sono state un disastro.

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