Si fa presto a liquidare la prima conferenza stampa di Elly Schlein annotandone le cautela e la prudenze che sfociano in risposte non dirette. Dice no all’aumento delle spese militari, ma dietro le sue spalle c’è una bandiera ucraina: «Sarebbe meglio avere una difesa comune europea, il che non significa che, finché non c’è una condivisone vera, possiamo vedere un aumento della spesa militare in ogni paese Ue»; dice no all’ordine del giorno di grillini e rossoverdi contro il termovalorizzatore romano, e se fosse stato per lei non l’avrebbe fatto, ma quella di Roberto Gualtieri «è una scelta che era già stata presa dall’amministrazione di Roma. Ereditiamo scelte già fatte», quindi l’opera va avanti; personalmente dice sì alla gravidanza per altri ma la legge presentata dal Pd alla camera prevede il matrimonio egualitario, il riconoscimento dei figli di coppie omosessuali «ma non la regolazione della Gpa». Benché «animalista», neanche sulla sorte dell’orsa JJ4 dice una parola chiara.

Eppure quelle che possono essere lette legittimamente come indecisioni, per fianchi scoperti a vantaggio degli avversari, in realtà possono altrettanto legittimamente essere interpretate come metodo di una politica scafata, che sa bene di guidare un’idra divora-segretari, un partito sul quale chi ha annunciato «il lanciafiamme» è rimasto bruciato.

Il core business del suo primo match con i cronisti, convocato a due mesi dall’elezione, e quindi necessariamente meditato, sembra stare meno in superficie. Schlein avverte il governo, «campione di scaricabarile» sul Pnnr, di non perdere «l’occasione storica ed irripetibile per il paese. Non è più una sfida che riguarda il governo. Riguarda tutto il paese: non possiamo rischiare, con i ritardi che si sta accumulando, di non ricevere le risorse fondamentali per il rilancio del paese». Invita le opposizioni a «vigilare» insieme sui dossier (conversione ecologica, trasformazione digitale, coesione sociale e territoriale, Sud, quota di assunzioni di giovani e donne).

Anche sull’immigrazione c’è un appello alle opposizioni: «Il decreto Cutro, che faccio anche fatica a chiamare così per rispetto alla strage che lì è accaduta, cerca di portare l’Ungheria in Italia e di portare avanti il modello ungherese, smantellando l’unico modello di accoglienza diffusa che vede il pieno coinvolgimento degli enti locali. È peggio dei decreti sicurezza di Salvini».

La rotta dell’alleanza

Nel momento di massima divisione delle minoranze – il Terzo polo è esploso ma se c’è una cosa che accomuna Matteo Renzi e Carlo Calenda è l’incompatibilità con il Pd di Schlein, M5s e rossoverdi vanno a caccia di occasioni per metterle un dito nell’occhio – lei mantiene in testa la rotta: se le europee premieranno il Pd, toccherà a lei riunire il tavolo, sedersi a capotavola e provare a non riconsegnare il paese alla destra estrema che lo guida adesso. Una destra che, spiega, non fa scivoloni casuali sulle Fosse Ardeatine, su Via Rasella, o quando ripete concetti nazisti come la «sostituzione etnica» («parole da suprematisti bianchi» dice lei con più garbo): «Ogni giorno dicono bestialità di questo tipo e non sono incidenti di percorso, quando lo fai tutti i giorni diventa uno schema».

La rotta, la meta lontana ma da costruire da subito, è un’alleanza larga e competitiva, quella in cui hanno fallito tutti i suoi predecessori. «Con le altre opposizione non ci siamo ancora visti ma c’è piena disponibilità al dialogo. Se teniamo un approccio pragmatico sui temi non credo ci siano problemi, come accade a livello locale per le amministrative. Se aspettiamo di essere d’accordo su tutto non costruiremo l’alternativa alla destra».

Prima di quell’obiettivo, c’è rafforzare il Pd. Che non può essere «un po’ tutto e il contrario di tutto, perché poi si rischia di non rappresentare più nessuno». Ma per farlo ha inaugurato una guida prudente. «Non sono una tuttologa», dice con un sorriso dopo un’ora e mezza di domande, «ho una scelto segreteria politica e forte», la riunirà per la prima volta venerdì prossimo a Riano, nel posto dove fu ritrovato il corpo straziato di Giacomo Matteotti, primo martire della resistenza al fascismo, «c’è un partito con molte competenze», «non sono mai stata una giovanilista», «ho l’umiltà di sapere che le rivoluzioni non si fanno in un giorno, la strada sarà lunga».

Forse sta qui la chiave di qualche silenzio di troppo per i gusti della comunicazione istantanea dell’era dei social. Si intravede il criterio del meglio meno ma meglio. Scelta saggia, almeno all’inizio, per una segretaria così diversa dal partito che ha conquistato. Certo, è una scelta da opposizione. Per un partito in cui il leader è automaticamente il candidato premier, il progetto di un governo non ammetterebbe pause, incertezze, oneste e leali ammissioni di incompetenza. Ma il governo è una meta ancora lontanissima.

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