«Io sciopero» recitano gli striscioni rossi che aprono i cortei di cinquanta città, nella giornata dello sciopero generale indetto dalla Cgil. Messaggio identitario, per un’astensione indetta in solitaria, nel periodo più buio del sindacato. Il governo tira dritto.

L’ultima manovra è stata comunicata a pacchetto chiuso (delle proposte sindacali, accolta solo la detassazione degli straordinari). I salari sono al palo, anzi scendono perché i contratti non recuperano l’inflazione (secondo uno studio di Corso d’Italia, siamo il paese Ue in cui sono diminuiti di oltre 800 euro rispetto al 1991, in Germania salgono di 12mila, in Francia di 11mila).

Con Cisl e Uil i rapporti sono freddi, almeno fra segreterie nazionali. C’è l’insidia da sinistra dei sindacati di base, che ambiscono a farsi partito. Ma la Cgil sa portare le persone in piazza: mezzo milione i lavoratori che venerdì 12 dicembre hanno sfilato in tutta Italia contro la manovra «sbagliata e ingiusta».

A Firenze, al corteo dove è arrivato il segretario Maurizio Landini (e il presidente della regione, Eugenio Giani), erano 100mila. Per il sindacato, l’adesione allo sciopero è stata del 68 per cento. Le richieste: aumentare salari e pensioni, fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, contrastare la precarietà, una riforma fiscale equa e progressiva, dire no al riarmo e più investimenti in sanità e istruzione.

Per «bucare» i media, Landini ha alzato i toni: «Siamo a un regime, ci raccontano un paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così. Bisogna dare voce al Paese reale, a chi questo Paese lo tiene in piedi».

Il governo

I ministri hanno parlato di flop, da destra sono piovute a valanga le critiche di rito. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha attaccato un’astensione da «irresponsabili», indetta «in un momento delicato»: qui si è tradito, rivelando che il racconto del tutto va bene è falso.

Poi ha attaccato con il refrain dello «sciopero del venerdì». Anche lui, come Giorgia Meloni, ha finto di non sapere che non si indice uno sciopero di venerdì per favorire il weekend lungo a chi aderisce, ma per non far perdere un’altra mezza giornata di lavoro a chi si sposta per i cortei. Ha parlato di «bassissime percentuali di adesione».

Ma l’avvertimento al mondo del lavoro è arrivato da Atreju, la festa di FdI a Roma. Un piccolo episodio, ma emblematico: un manipolo di volontari che si autodefiniscono «felpe blu» ha improvvisato un flash mob satirico, nelle intenzioni, contro Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione. Lui è arrivato con il megafono e ha recitato una parte da avanspettacolo. Scandendo: «Si aspettavano i sabato di Mussolini, sono arrivati i venerdì di Salvini». Siamo al dileggio delle ragioni della lotta.

Ma non è solo il tentativo denigratorio della destra a fare dello sciopero generale una giornata comunque difficile per Landini. Cisl e Uil non hanno aderito.

Ciascuna per una ragione diversa: il sindacato di Daniela Fumarola per collateralismo con il governo, quello di Pierpaolo Bombardieri per evitare l’accusa di gregario alla vigilia del congresso del 2026. Per di più stavolta anche i partiti dell’opposizione sono rimasti freddini.

Avs ha schierato Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli in piazza a Firenze; il Pd ha sparso i suoi dirigenti. Ma in piazza stavolta non c’erano né Elly SchleinGiuseppe Conte.

Il fatto è che, dopo la sconfitta referendaria, a partire da un’analisi diversa del risultato, qualcosa si è incrinato fra sinistra e sindacato. Landini non si è fatto impressionare e, dal palco di Firenze, ha rilanciato anche la sua proposta meno popolare (a sinistra) e più attaccata (da destra): quella della patrimoniale sulle ricchezze oltre i 2 milioni.

Una tassa dell’1,3 per cento che riguarderebbe 500mila italiani e genererebbe un gettito di 26 miliardi da investire in sanità, scuola e welfare. Dopo lo sciopero «non ci fermano e siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». Contro la manovra, e poi verso il referendum contro la riforma della giustizia. La Cgil sarà della partita del No, ma è un’altra battaglia difficile, come quella dei referendum dello scorso giugno, e dall’esito del tutto incerto.

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