Una firma scarabocchiata distrattamente: a chi non è capitato di farne. Certo, non dovrebbe succedere se il proprio nome e cognome servono ad accertare l’autenticità di un’opera d’arte dal valore di decine o centinaia di migliaia di euro. È proprio questa una delle contestazioni mosse dalla procura di Roma a Vittorio Sgarbi, critico d’arte, personaggio televisivo, sindaco di Sutri, pro-sindaco di Urbino, già sindaco di Salemi, comune sciolto per mafia durante il suo mandato, e ora candidato assessore alla Cultura del centrodestra in vista delle comunali che si terranno in autunno nella capitale.

Ieri, nelle aule del tribunale di Roma, si è tenuta l’udienza preliminare del processo che vede coinvolte, oltre a Sgarbi, altre 20 persone. L’udienza, durata circa due ore, è stata rimandata per le conclusioni al 30 giugno con la decisione per il rinvio a giudizio. Gli imputati avevano sollevato varie questioni di incompetenza territoriale ma il giudice le ha escluse, ritenendo che la competenza sia correttamente radicata nella Capitale. Le accuse sono quelle di associazione a delinquere e falsa autenticazione di opera d’arte. Nel corso delle indagini sono state sequestrate oltre 250 opere, attribuite all’artista Gino De Dominicis e considerate contraffatte, per un valore di oltre 30 milioni di euro. Molte di queste sono state autenticate da Sgarbi, in qualità di presidente della Fondazione che porta il nome di De Dominicis.

Un lavoro ben pagato, considerando che in poco meno di due anni, tra giugno 2012 e maggio 2014, il critico d’arte ha ricevuto bonifici per 170mila euro, oltre che un’opera dell’artista – ritenuta dagli investigatori «verosimilmente falsa» – come parte del compenso pattuito per l’adesione alla Fondazione.

Le indagini

Basta una firma per autenticare un quadro e attribuirgli un valore di decine di migliaia di euro. Come quelle che Sgarbi ha apposto il 25 giugno 2014, nella reception dell’hotel Carlyle di Milano. Le immagini di quell’incontro sono presenti agli atti del processo, che Domani è riuscito a visionare.

L’incontro è con Marta Massaioli, vicepresidente della Fondazione, considerata il cuore dell’associazione a delinquere, allieva, amante ed erede spirituale dell’artista scomparso nel 1998. De Dominicis le avrebbe lasciato in eredità oltre 150 opere, oltre all’incarico di creare la Fondazione con il suo nome. Il testamento però è considerato inattendibile e falso dall’accusa.

Nel primo pomeriggio di quel 25 giugno, Massaioli entra nell’albergo con un trolley grigio. Si incontra con il critico d’arte, si siedono, lei tira fuori i certificati di autentica – secondo gli investigatori sprovvisti tra l’altro della documentazione fotografica necessaria – e lui inizia a firmare in maniera sbrigativa, «senza cura e attenzione» scrivono i magistrati nella richiesta di ordinanza cautelare, mentre parla al cellulare.

Tra una firma e l’altra, Sgarbi ha il tempo di parlare anche con il gallerista milanese Massimiliano Mucciaccia, che in passato aveva comprato da Massaioli delle opere di De Dominicis (80 per la precisione, di cui 68 ritenute false). «Ho firmato un po’ di perizie», esordisce il critico d’arte, prima di fare una proposta al gallerista: «Siccome sono diventato assessore alla “rivoluzione” di Urbino, in tempi rapidissimi per dare la prova della “rivoluzione” possiamo inaugurare una mostra di De Dominicis e operiamo con 100-120 opere di De Dominicis… mettetevi d’accordo...». Questa telefonata, secondo i magistrati, evidenzia come Sgarbi ponesse la sua figura «a garanzia di tutta l’operazione in corso».

Una settimana dopo l’incontro nell’hotel di Milano, i carabinieri portano a termine un sequestro a casa di Marta Massaioli. Vengono ritrovate così oltre 40 opere di De Dominicis ritenute false e 170 fogli di autentica, di cui 119 firmati da Sgarbi.

A sera Massaioli avverte Sgarbi del sequestro. Lui, sorpreso, si attiva subito: «Adesso chiamo il comandante generale dei carabinieri». Ma non si ferma qui, a mezzanotte e mezza, Sgarbi chiama il centralino di palazzo Chigi, per cercare di parlare col ministro della Difesa, che nel 2014 era Roberta Pinotti, per denunciare l’operato dei carabinieri che hanno svolto le indagini. Il giorno successivo, in una telefonata a Muciaccia, dice: «Ho chiamato il generale dei carabinieri...ho parlato del...col ministro...gli ho detto questa cosa è del tutto inaudita». In un’altra conversazione intercettata con un amico carabiniere, il critico d’arte se la prende con gli investigatori: «Carabinieri ladri! ...adesso vi massacro ...vi denuncio come associazione a delinquere». Poi ammette di aver scomodato un altro ministro: «Ho parlato con Franceschini (Dario, anche allora ministro dei Beni culturali, ndr) mi ha detto: “Ma sai, loro devono eseguire un ordine…”».

Secondo l’accusa, il sodalizio di cui faceva parte Vittorio Sgarbi non aveva solamente l’intenzione di continuare a produrre, autenticare e vendere opere false di De Dominicis a compratori ignari, ma anche quella di creare una “nuova Fondazione”, «struttura necessaria per dare ulteriore credibilità al progetto criminoso», ma soprattutto per fare fuori tutte quelle persone che avrebbero potuto frenarlo. Come Paola De Dominicis, cugina ed erede dell’artista scomparso, che grazie alle sue denunce, ormai dieci anni fa, ha dato il via all’inchiesta. Ma soprattutto l’avvocato Italo Tomassoni, vicepresidente della “vecchia” Fondazione e più duro oppositore dei nuovi progetti: per questo motivo gli era stato affibbiato il soprannome di “mostro di Foligno”.

Vittorio Sgarbi è stato cercato senza successo da Domani, ma nei giorni scorsi ha dichiarato a Repubblica che «tutte quelle opere sono vere, lo posso giurare su mia madre» e di non essere intenzionato a ritirare la sua candidatura da assessore a Roma, «perché tra un anno il reato andrà in prescrizione. A dimostrazione che quest’inchiesta è stata inutile, una perdita di tempo».

L’autenticazione

La vicenda giudiziaria dei presunti falsi De Dominicis è emblematica delle zone grigie nella normazione nel mercato dell’arte, dove pure i capitali e il valore economico delle opere sono ingenti. E dove false autenticazioni come quelle ipotizzate in questo caso arrecano danno non solo all’immagine dell’artista ma anche al valore di mercato delle sue opere.

L’autenticazione di un’opera d’arte è l’elemento fondamentale non solo per attribuirla all’artista, ma anche per fissarne il valore economico. Fino a quando l’artista è in vita, ovviamente l’autenticazione spetta a lui. Dopo la morte, invece, la legge sul diritto d’autore stabilisce che la certificazione di autenticità delle opere spetta ai suoi familiari: coniuge e figli e, in loro mancanza, genitori e altri ascendenti e discendenti diretti. Parte della giurisprudenza, tuttavia, è orientata a consentire anche l’autenticazione venga fatta da soggetti terzi come fondazioni, gallerie d’arte e critici. Nel caso di Gino De Dominicis l’erede, assistita dallo studio legale Brunelli, ha costituito l’“Archivio Gino De Dominicis”, che sarebbe appunto l’unico considerato autenticatore ufficiale delle opere. Inoltre, esiste una prassi nel mercato dell’arte per cui vengono ritenute autentiche solo le opere inserite nel catalogo generale dell’artista, considerato una sorta di registro dell’autenticità del suo lavoro e che, nel caso di De Dominicis è curato dalla commissione scientifica dell’Archivio.

Nel caso di Sgarbi, invece, il certificato di autenticazione veniva prodotto dalla Fondazione Archivio Gino De Dominicis, la cui vice presidente è Marta Massaioli.

Intersecando le norme sul diritto d’autore con il codice penale, tuttavia, la questione assume un ulteriore aspetto problematico. «La contestazione mossa dall’erede di De Dominicis ai membri della Fondazione è sostanziale: non solo quella di essersi sovrapposti all’autorità riconosciuta come l’unica a poter autenticare, ma prima di tutto che ha autenticato opere false», spiega il legale di parte civile, l’avvocato David Brunelli. Il punto, infatti, è che il falso d’arte non sussiste se le opere sono in effetti vere, anche se autenticate da un soggetto non legittimato. Invece, in questo caso, l’ipotesi accusatoria – sostenuta dalla perizia del consulente della procura – è che il giudizio di autenticità di Sgarbi non sia corretto e che dunque siano state fatte circolare opere false dell’autore.

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