Molte volte mi sono chiesta che cosa ci renda ciechi alla storia presente, impedendoci di discernere i torti e le ragioni, ma anche solo la vera grandezza e la vera miseria, almeno con il grado di lucidità e condivisibilità con cui li discerniamo nelle azioni e negli eventi del passato.

Un grado relativo, fatto di acquisizioni sempre rivedibili e di scoperte sempre nuove: ma di acquisizioni e scoperte si tratta, non della nebbia intrisa di menzogne che circonda le azioni mentre si svolgono, i fatti mentre accadono.

Perché da sempre le civiltà implodono, le catastrofi politiche e le guerre accadono prima che la coscienza media, comune, ne percepisca i segni: e tanto meno li percepiamo, quante più parole evocatrici di scenari catastrofici circolano quotidianamente sugli organi della coscienza quotidiana, i media appunto. Dove, è vero, vige un’equiparazione fra le trombe dell’apocalisse, le rivolte contro i più sanguinari regimi teocratici, i risultati dei mondiali di calcio e la pubblicità delle vacanze, secondo le imperscrutabili ma democratiche leggi del giornalismo (e non del nichilismo, anche se sembra).

La filosofia ha una risposta propositiva: bisogna scrivere di cose eterne perché siano di attualità. Restringendo l’orizzonte a un tema di (quasi) eterna attualità in Italia – come ricostruire una Sinistra - vorrei provare a svolgere questo pensiero, e magari proporlo (con vera timidezza) alla giovane donna che alcuni, forse molti, sperano oggi possa contribuire davvero al rinnovamento di quello che della sinistra è ancora il maggiore partito, se ne diverrà segretaria.

Ecco: sembra difficile dissipare la nebbia che avvolge il presente a partire dalle formule che stimabilissimi consiglieri, senza eccezione più esperti di chi scrive in cose di politica, immettono quotidianamente nel dibattito: come ad esempio che la sinistra si salva solo se affronta sul serio la questione sociale, o la unisce con la questione ecologica, o ritrova radicamento territoriale e “di massa”.

Ma siamo sicuri che siano “masse” e territori da un lato, povertà semplicemente materiale dall’altro, a sfuggire alle attuali dirigenze politiche progressiste? Siamo sicuri di non essere noi, ciascuno di noi individualmente, gli infelici che sfuggono allo sguardo di quelle dirigenze? Non potrebbe rivelarsi più illuminante per dei leader che non abbiano dimenticato la loro motivazione di fondo – e cioè la fame e sete di giustizia, supponiamo – indagare la nostra infelicità, almeno per quanto essa dipenda dall’essere la nostra una società ingiusta?

La sinistra e le parole proibite

A Londra, chiusa nell’ufficetto dove era stata relegata perché non disturbasse troppo i manovratori della storia intorno all’anno 1942, Simone Weil si interrogava sulle pietre angolari della nuova civiltà europea da ricostruire dalle rovine di quella presente. E scrutò a fondo l’infelicità umana.

Vide il mondo sociale del Novecento a tal punto svuotato della sua polpa, che era il mondo morale della civiltà dei Lumi e dei diritti, da lasciare alla civiltà europea soltanto la sua buccia, tanto facilmente stracciata sotto i panzer nazisti (Parigi era occupata già da due anni).

Lei preparava una Dichiarazione dei Doveri verso l’essere umano, che l’Età dei Diritti (come la chiamò più tardi Norberto Bobbio) aveva trascurato. Perché aveva trascurato la parte più importante dei bisogni umani ai quali i diritti rivendicano dovuta soddisfazione. Facile la banalizzazione in voga oggi come allora: certo, i diritti civili (oggi aggiungeremmo: anche quelli che riguardano le scelte di genere, la procreazione assistita, il fine vita) sono niente senza diritti sociali, come i fini senza i mezzi o l’anima senza il corpo. Ma separare l’anima dal corpo o il mondo sociale dal mondo morale è precisamente condannare il pensiero politico alla vacuità. Come curerete l’infelicità del maggior numero se non sapete dove ha veramente origine? E senza dubbio ha origine nell’anima, come ogni cosa umana.

Non fraintendete: occorre seguire fino in fondo lo sforzo supremo di una mente che ha fatto tesoro della sua breve ma bruciante esperienza del male sociale, fin nel cuore della catastrofe mondiale: e se usa parole proibite a sinistra è proprio per strapparle alla menzogna di chi le usa per sfruttare la nostra infelicità, e non per illuminarla. Simone vede nel bisogno d’ordine il primo dei bisogni ignorati dell’anima umana. O piuttosto, un meta-bisogno: la chiave per capire tutti gli altri.

È il bisogno di equilibrio fra bisogni contrari. Avviene per l’anima come per il corpo: abbiamo bisogno di nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti; abbiamo bisogno di caldo e di fresco, di riposo e di esercizio. Veniamo allora ai Principi dell’89. Noi abbiamo bisogno di libertà e di obbedienza. Perché la libertà, per non far danno, deve esercitarsi nel libero consenso: alle leggi (pagare le tasse, non rubare etc.); all’autorità che mi guida (lo specialista alla sua scienza e tecnica, l’opera d’arte alla disciplina della sua fruizione, l’insegnante all’apprendimento della sua materia). C’è molto di più della distinzione fra la libertà liberale e quella repubblicana, coi vincoli che pone perché la libertà non produca dominanti e dominati (come ha ricordato Andrea Capussela su Domani il 9 dicembre).

Perché questo equilibrio approfondisce anche il senso dell’eguaglianza, di cui abbiamo tanto bisogno quanto ne abbiamo – altra parola proibita – di gerarchia. Infatti, è perché siamo certamente tutti eguali in dignità, che chi esercita qualche potere su di me deve essere competente a farlo, avere titolo a esercitarlo, e mostrarsene degno: il giudice deve essere più e non meno impeccabile del cittadino sanzionato, il capo di uno stato deve essere “all’altezza” del suo ruolo perché io non ne sia umiliato come cittadino.

Il sentimento della nostra pari dignità e delle conseguenti pari opportunità di cui dobbiamo tutti godere è gravemente offeso se ai ruoli istituzionali non corrispondono i titoli di merito. Ma il concetto di gerarchia è più ampio di quello di meritocrazia, perché include anche la priorità dell’attenzione dovuta ai bambini, il peculiare rispetto dovuto agli anziani, l’ammirazione della bontà gratuita o della bellezza, il riconoscimento dei ruoli.

È proprio questo non prescindere affatto dalle qualità individuali e sociali delle persone che diversifica questa teoria della giustizia da quelle di Kant e di Rawls, dove i soggetti che “scelgono” i principi di una società giusta sono in definitiva le persone solo in quanto soggetti morali, e non anche in quanto soggetti incarnati nella loro condizione vitale e sociale, dall’infanzia alla maturità: l’anima sta nel corpo, appunto.

Disordine e dolore rimosso

Liberté Egalité Fraternité: e il terzo dei grandi principi? Credo si debba intendere precisamente come la ragione degli opposti: libertà e uguaglianza sono bisogni da riconoscere, ma non a detrimento dei bisogni loro opposti. Senza questo riconoscimento l’altro è trattato con prepotenza e protervia, e non fraternamente. Già: quanti equivoci su “destra” e “sinistra”, quante confusioni o scimmiesche imitazioni, da un lato o dall’altro, di reciproche bandiere ci risparmieremmo se comprendessimo più a fondo la natura del disordine che vediamo intorno a noi, nei paesaggi stuprati, nei talenti dissipati, nelle scuole umiliate, negli abusi condonati, nella corruzione premiata, nella mediocrità incoronata, nell’ignoranza impunita.

Quanta infelicità potremmo risparmiarci se attraverso questo disordine nel mondo sociale vedessimo quello dell’anima nostra azzoppata del suo bisogno d’ordine, zittita a forza di provvigioni o elemosine, e ammutolita. E parlo della vita di ciascuno: perché i due poli dei bisogni dell’anima non sono l’opposizione fra “valori” o “interessi” di gruppi o soggetti contrapposti, in relazione alla quale i moderni giuristi parlano di “equilibrio” o “bilanciamento”: ad esempio, nella bioetica contemporanea, fra “esigenze della madre” ed “esigenze del nascituro”.

È in ciascuna singola persona che l’un bisogno chiede il vincolo dell’altro, precisamente per non degenerare, prima nell’ideologia e poi nel male: libertarismo anomico ed egualitarismo populista, particolarismo delinquente e comunitarismo opprimente.

La prova a contrario è nelle società private della libertà – cosa che rende servile l’obbedienza, e della pari dignità – cosa che rende avvilente la gerarchia. Somigliano a quella sognata dal Grande Inquisitore dostoevskiano, basate sul baratto fra libertà e “felicità”. Se potesse mai esistere per gli umani una felicità del genere: che consisterebbe nell’essere del tutto sollevati da uno dei poli, il polo inquietante, quello del rischio  – cosa che rende mortifera la sicurezza.

Non separate la pancia e la virtù – o seminerete barbarie.

Prima la pancia e poi vien la virtù, cantano il banchiere e il filibustiere di Brecht, e hanno torto. È il vecchio modo di stabilire l’agenda politica della sinistra, e non sarà una sfumatura di ecologia a svecchiarlo.

La pancia è triste quando è vuota, ma l’anima è triste anche se la pancia è piena, quando le manca la “virtù”: il talento e le qualità, il valore che ciascuno sperava di poter mostrare, per essere riconosciuto e amato. Ma come si fa senza mondo morale. Quello della pancia che viene prima è il modo sbagliato di “radicare” la politica.

Nel territorio? Fra le masse? Ma perché non vedete che siamo noi, semmai, quelli sempre sradicati dai tempi che cambiano, come i lavori, le abitudini, i paesaggi. “Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana” – così Weil continua la sua esplorazione dell’infelicità. E anche uno dei più difficili da definire, dei più facili da fraintendere: in senso identitario, nazionalista, tribalista.

Le tragedie del Novecento, ma anche quelle presenti, lo insegnano: nessuna politica è più pericolosa per la civiltà e la pace che quella che stravolge il bisogno di radicamento nell’idolatria. Un’altra cosa che Dostoevskij aveva capito: il bisogno di comunione nell’atto di adorare, di inchinarsi insieme a qualche nome di dio su una bandiera: «Per questo bisogno gli uomini si sono sterminati fra loro». A questo prezzo, sono disposti a pagare qualcosa di cui vivere, che riempia il vuoto di giorni altrimenti senza senso o virtù. E senza “nutrimento”: perché soltanto a questo, in verità,  servono le radici, e ognuno ha bisogno di radici multiple.

È tragedia distruggere il tesoro del passato in cui affonda la mia vita, ma è tragedia distruggere anche tutto l’altro di cui vivo: le numerose comunità cui appartengo, le professioni, gli orizzonti nuovi, la speranza, il futuro.

Le vere Origini, secondo il bellissimo titolo del libro del bosniaco-tedesco Saša Stanišić presentato da Lisa di Giuseppe. Fino al paradosso della guerra, che per affermare un’identità collettiva distrugge tutte le radici delle singole vite.

È quello che vediamo oggi, quando il cosiddetto Occidente inalbera le bandiere dei diritti umani e della democrazia, questi universali strumenti di senso inventati per abolire le guerre, mentre costruisce i caccia dell’avvenire, nel nome di un “noi” sempre più simile al loro profilo di squali.

Forse è questo il mistero di una sinistra europea che sta finendo di divorare se stessa. Per aver separato la pancia e la virtù ha perduto l’una e l’altra, e alternativamente, schizofrenicamente, insegue fuori di se stessa il polo ignorato, o quello degenerato, dei bisogni dell’anima. Non risorgerà finché non saremo noi a scendere fin nel fondo della nostra infelicità per conoscerla: per riscoprirvi il più rimosso dei bisogni dell’anima umana, “il più sacro”: il bisogno di verità.

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