«Salutiamo un simbolo della credibilità e della forza delle istituzioni della Repubblica, stretti intorno al presidente Mattarella che di questa credibilità e forza è espressione ogni giorno. Salutiamo un grande riformista europeo: per lui l’Europa è stata sempre la via maestra. Caro Giorgio, questa via, la tua via, cercheremo di seguirla sempre».

Quando il commissario europeo Paolo Gentiloni chiude la sua orazione per il funerale laico di Giorgio Napolitano, ha detto abbastanza, anzi ha detto tutto, tutto quello che può irritare il governo dei sovranisti – alias nazionalisti – italiani. Dai banchi dell’esecutivo, Matteo Salvini non applaude. Accanto a lui la premier Giorgia Meloni accenna un battimano ma si freeza a mezz’aria. Un «patriota costituzionale», dice Gentiloni – e ripartono i boatos che lo danno come riserva della Repubblica, non è chiaro se per il suo Pd o il palazzo in attesa di tempi peggiori – per lui «l’avvenire dell’Italia non poteva prescindere dalla collocazione europea», «un progetto quanto mai attuale».

Ieri a Montecitorio si celebravano le esequie di stato, per la prima volta all’interno del parlamento, con un cerimoniale pignolo, aula piena da un’ora prima che il feretro arrivi da palazzo Madama, sfilata degli ospiti internazionali e delle istituzioni per l’ultimo omaggio alla sala dei ministri, plotoni di commessi e funzionari a evitare inciampi e figuracce. Ma in realtà è stata una sfarzosissima messa laica in onore dell’europeismo, recitata in faccia al governo che di Napolitano pensa da sempre che sia stato un golpista. E che in una circostanza così, davanti agli occhi di mezzo mondo, deve sopportare pazientemente

Il colpo d’occhio del centro dell’aula è l’immagine plastica di due trincee, due eserciti schierati uno di fronte all’altro. Di qua, dal lato del parlamento, i presidenti di mezza Europa, venuti a rendere omaggio al più europeista di tutti; Mattarella è esattamente al centro di un semicerchio di elegantissime sedie: da un lato ha il presidente federale tedesco Steinmeier, il presidente francese Macron, l’ex presidente Hollande, la duchessa Sophie di Edimburgo, il presidente albanese Bajram Begaj; l’ex presidente austriaco Fischer, quello del Portogallo Silva, della Slovenia Pahor. Alla sinistra di Mattarella c’è l’avvocata Clio Maria Bittoni, vedova del presidente, i figli Giulio, e Giovanni con la moglie Darlene Tymo, i nipoti del presidente Sofia e Simone.

Di là, cioè dirimpetto a tutti loro, il governo dei sovranisti e dei loro amici (amici anche di Marine Le Pen). Al centro c’è Giorgia Meloni, seduta fra i vice Salvini e Tajani, facce volutamente inespressive, a volte tradiscono la noia, l’attesa del tana libera tutti, Vittorio Sgarbi a tratti si assopisce.

La premier ha una giacca nera con i bottoni oro, e non si deve parlare della mise di una signora più che di quella dei colleghi uomini, ma il fatto è che la giacca è così uguale alla divisa del comandante dei corazzieri sull’attenti due passi più in là, l’effetto è più Renato Rascel che lutto nazionale. Ma non c’è da scherzare anzi ride bene chi ride ultimo, la domanda è: alle prossime europee quale dei due schieramenti vincerà la disfida?

Le orazioni

Il disagio delle varie sfumature di destra si capisce da un impacciato Lorenzo Fontana, presidente della Camera quindi padrone di casa. La paura di sbagliare lo fa rifugiare in un discorsetto biografico impreziosito da qualche complimento convenzionale, «una delle figure più rilevanti della storia della Repubblica».

Quello che stavolta non può dire è quello che la destra antieuropeista teorizza: e cioè che Napolitano nel 2011 abbia costretto Berlusconi alle dimissioni e consegnato il paese alla straniera Europa, a mezzo Mario Monti. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha imparato a tenere per sé le intemperanze lessicali, parla d’altro, elogia «la dedizione» di Napolitano per i festeggiamenti del 150 anni dell’Unità d’Italia.

E invece è Gianni Letta, già sottosegretario di Berlusconi e amico di una vita del Cavaliere, a smontare la teoria del complotto, raccontando la coabitazione fra il Cavaliere e il presidente, «due mondi opposti», «poteva essere difficile quella convivenza e non fu sempre facile, non mancarono i momenti di tensione e le polemiche, ma da tutte e due le parti non vennero mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale».

Questa la verità sui due ex avversari, parola di un berlusconiano doc, il «lutto repubblicano» chiude «un capitolo tormentato e complesso di questa storia». Poi l’entusiasmo gli prende la mano: «Mi piace immaginare che incontrandosi lassù possano dirsi quello che non si dissero quaggiù», «possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce». La sinistra si irrita, ma per la destra è un insidiosissimo fuoco amico.

Lezioni di stile

Tutti gli oratori compongono il ritratto di un’Italia agli antipodi da quella che ha eletto la maggioranza attuale. Lezioni di stile, il figlio Giulio racconta di un padre che «ha combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate», ma comunque uno per cui la politica «era una cosa seria», «Non sopportava la demagogia, lo spirito di fazione, la riduzione del confronto politico ad urlo ed invettiva», la nipote Sofia fa il ritratto di una vita non comune, un nonno affettuoso che porta i nipoti a Capri o a Stromboli e presenta loro la regina Elisabetta, ma è commozione bipartisan quando ricorda «ci scriveva sempre, anche quando non sapevamo ancora leggere».

Il cardinale Gianfranco Ravasi a braccio – il know how è inarrivabile –, cita un Napolitano che definisce «bellezza ultraterrena» l’Ave verum di Mozart. Si commuove Anna Finocchiaro: «Napolitano ha speso la sua vita per l’Italia e ad essa appartiene la sua memoria».

Giuliano Amato ricorda lo scontro con la magistratura, quando sollevò il conflitto d’attribuzioni dopo la dolorosa vicenda che portò alla morte di Loris D'Ambrosio, le famose telefonate intercettate per caso, poi distrutte perché «la Corte Costituzionale gli dette ragione».

I capannelli

Prima della cerimonia, l’aula si era riempita di capannelli che raccontano altre storie, geometrie esistenziali, attrazioni fatali. D’Alema, Conte, Prodi e Monti discutono a lungo, praticamente una riunione. Mario Draghi riceve una processione di omaggi come se quel parlamento non l’avesse mai sfiduciato; Gianfranco Fini cerca invano qualcuno di destra con cui chiacchierare, trova solo Fausto Bertinotti e Roberto Fico. Matteo Renzi arriva alla mezza, un’ora in ritardo, e durante il funerale manda ai fan la enews.

C’è Pier Luigi Bersani, l’allora segretario che in quel 2013 fa un passo indietro a favore di Enrico Letta (presente lì, ma taciturno) perché non voleva fare le larghe intese indicate da Napolitano. Ma resta tutto il tempo con i suoi, gli ex di Art.1, nella fila di scranni più in alto a sinistra.

Elly Schlein invece ascolta dalla terza fila: nei giorni della rielezione di Napolitano al Colle lei faceva le manifestazioni contro, Occupy Pd. Ieri si è presentata in Transatlantico dando il braccio alla partigiana Iole Mancini. La storia di quegli anni per la destra è un complotto, di cui per opportunismo per una volta è meglio non parlare. Per la sinistra è un’occasione persa, di cui ugualmente è meglio tacere, ma non solo per un giorno.

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