I parlamentari dell’opposizione arrivano in aula, dov’è calendarizzata l’autonomia differenziata, caricati a molla dal risultato delle europee. Il voto finale sarà giovedì, i tempi sono contingentati. Sono pronti a farsi esplodere contro la legge. Dopo le elezioni c’è una ragione in più: perché se nelle minoranze le urne hanno premiato solo a Pd e Avs, la maggioranza, al Sud, ha dovuto prendere atto di qualche problema. Per dire: Fratelli d’Italia in Campania ha perso cinque punti percentuali, è scesa di otto punti sotto la media nazionale. E al Sud il Pd è diventato il primo partito. Ce n’è abbastanza per serrare i ranghi e provare a rallentare la legge. O almeno dare al voto degli emendamenti la massima visibilità. La destra sa che l’ok all’autonomia differenziata non aiuterà i candidati sindaci meridionali: il 24 e il 25 giugno ci sono i ballottaggi. Al sud votano Potenza, Bari, Caltanissetta e Vibo Valentia.

Così Marco Sarracino, responsabile Mezzogiorno Pd, attacca: «L’esito delle europee ha mandato un messaggio chiaro al governo. Avete perso al Sud, i numeri parlano chiaro: il Mezzogiorno ha votato contro l’autonomia differenziata». Si appella «ai colleghi di maggioranza eletti nelle circoscrizioni meridionali»: «Fermatevi, questa secessione fa male ai cittadini del Mezzogiorno».

Sarracino uccide un uomo morto, anzi due uomini morti su tre: due partiti su tre della maggioranza, e cioè Forza Italia e Fratelli d’Italia, patiscono la riforma imposta dalla Lega, anche se a Roma non rompono i patti. Ma nelle regioni del Sud cresce il maldipancia degli amministratori. Non solo quelli di sinistra. Il presidente della Calabria Roberto Occhiuto (FI) ha fatto votare al suo Consiglio regionale un documento scettico sulla riforma Calderoli, e ha chiesto «una presa di coscienza ai gruppi dirigenti del Sud».

Il presidente lucano Vito Bardi, altro forzista, ha pronunciato un tartufesco «né né», cioè ha detto di non essere contro né a favore dell’autonomia: non è molto, ma per uno come lui è già uno sforzo sovrumano. Poi c’è il presidente abruzzese Marco Marsilio, FdI di rito meloniano. Dice di essere a favore ma in realtà, nell’audizione in commissione, ha lasciato agli atti richieste di infrastrutture, all’indirizzo dello stato centrale, che poco hanno a che vedere con una postura autonomista. Per non dire infine del ministro Guido Crosetto, che ieri a Repubblica ha detto di non sapere «quanto» questa riforma «sia centrale nell’evoluzione attuale del progetto salviniano», alludendo al fatto che interessa ai leghisti del Nord, ma non a quelli del Ponte sullo Stretto.

«Non spaccate l’Italia»

In aula Sarracino alza i toni: «Non spaccate l’Italia, fermate la secessione». Tutti i gruppi di opposizione intervengono a ruota: M5s, rossoverdi, Azione e Iv. Attaccano lo scambio fra premierato, ddl Calderoli e riforma della giustizia: una bandierina a ciascuno, FdI, Lega e FI. Chiedono di fermare il dibattito. La maggioranza tace.

Poi prende la parola il capogruppo di FdI, Tommaso Foti. Uno che se vuole menare mena. Stavolta ha un atteggiamento insolitamente mite. Tenta una mediazione, spiega che «manovre dilatorie» non saranno accettate, ma «se si vuole diluire diluiamo». Anzi propone lui stesso di chiedere al presidente della Camera, leghista, Lorenzo Fontana «di disporre un calendario d’aula congruo».

Fontana è avvisato, l’aula interrotta, convocata una capigruppo. Ma lì non sente ragioni: si va avanti a passo di carica. Le minoranze provano a frenare, recitano tutto il rosario delle disuguaglianze nord-sud che questa legge allargherà. Una grillina recita, strillando, l’inno di Mameli contro «i falsi patrioti». Che rispondono che «dileggiare l’inno nazionale è spregevole, forse costituisce un illecito». Tutto sotto lo sguardo attento del ministro Roberto Calderoli: presente, come sempre, a vigilare che nessuno faccia scherzi. Nessuno della maggioranza, più che dell’opposizione.

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