Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana in maniera irreversibile. Sfruttando le opportunità aperte dal crollo del sistema dei partiti e dall’inchiesta Mani pulite, e utilizzando al meglio le sue competenze e conoscenze, Berlusconi ha effettuato un’irruzione immediatamente vittoriosa sulla scena politica italiana come non era mai riuscito a nessun partito europeo nel secondo dopoguerra.

Il non improponibile paragone con il generale Charles de Gaulle deve tenere conto che associazioni golliste erano a lungo state operative prima del 1958. Vale anche per dichiarare sùbito che Berlusconi non riuscì nella impresa della Grande Riforma che, invece, de Gaulle, più e meglio preparato, tradusse molto brillantemente nella Quinta Repubblica francese.

Un partito personale

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Il movimento politico Forza Italia è stato il primo partito personale e personalizzato. Totalmente dipendente dalle risorse del suo fondatore, per qualche tempo, Forza Italia poté utilizzare il carisma di Silvio Berlusconi.

Da Max Weber abbiamo imparato che Berlusconi scese in campo nel momento giusto, in una situazione di ansietà collettiva, con numerosi ceti italiani rimasti privi di rappresentanza politica per la scomparsa dei loro logori referenti partitici, e assolutamente impauriti dalla prospettiva di una vittoria delle sinistre, cioè, lo dirò, berlusconianamente, dei comunisti, degli ex-comunisti, dei post-comunisti.

Verso il bipolarismo

A questi ceti Berlusconi ricordò di avere avuto successo in tutti i settori nei quali si era cimentato: edilizia, televisione, calcio, e che non esisteva nessuna ragione per la quale non avrebbe dovuto avere successo anche in politica. D’altronde, lui era “l’unto del Signore”. La prova del carisma consiste nell’effettuare miracoli.

Sicuramente, la vittoria elettorale del marzo 1994, conquistata a due mesi dalla nascita di Forza Italia, costituì un vero e proprio miracolo politico. Fu anche la conseguenza di un altro cambiamento molto significativo: lo “sdoganamento”, come si scrisse con terminologia che rimane brutta, da lui effettuato del Movimento sociale italiano.

La legittimazione dell’estrema destra neo-fascista e il suo coinvolgimento nel governo del paese sono elementi di cui i vertici del gruppo dirigente dell’allora Msi, poi promossi a molte cariche, ancora godono. Tecnicamente, con modalità diverse, i due partiti anti-sistema della prima fase della Repubblica italiana, furono costretti a trasformarsi più o meno profondamente, con maggiore o minore successo.

Fin da sùbito, anche in questo approfittando della situazione completamente nuova prodotta dalla Legge elettorale Mattarella, Berlusconi comprese i vincoli e le opportunità che quella legge imponeva e comportava. Non fu lui a inventare il bipolarismo, ma la sua capacità/necessità di costruire coalizioni che si candidavano al governo obbligò gli esponenti del centro-sinistra a fare altrettanto, a costruire l’altro polo.

Un misto di sopravvalutazione del proprio rimanente consenso e di sottovalutazione delle nuove clausole elettorali portò gli ex-democristiani a non cercare alleanze prima del voto e agevolò decisivamente la vittoria del Polo della Libertà e del Polo del Buongoverno.

Quella vittoria fu dovuta, in parte molto consistente, non in maniera assoluta, come sostennero consolatoriamente troppi esponenti del centro-sinistra, alla televisione che, pure, ovviamente, ebbe un ruolo. Nel dibattito con Achille Occhetto, convinto del prevalere delle sue competenze politiche, Berlusconi emerse sostanzialmente vittorioso proprio perché seppe usare il “mezzo” meglio del suo oppositore.

Altri strumenti

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Berlusconi introdusse innovativamente nelle campagne elettorali e nella politica italiana: il ricorso periodico e sistematico ai sondaggi, ma, soprattutto, l’uso di focus group per capire meglio le preferenze di specifici settori dell’elettorato, a cominciare dalle casalinghe e dai ceti medi e le “partite Iva”.

Il partito personale diventò in questo modo anche, come alcuni politologi avevano per tempo previsto, un partito elettorale professionale che si dotava di tutti gli strumenti disponibili per il marketing, non soltanto politico, e li utilizzava con maestria. Partiti che non avevano saputo rinnovare e aggiornare le loro fatiscenti ideologie non potevano trovare elettori abbastanza sensibili alle loro pretese di fare politica con valori. Tanti erano stati plasmati dai programmi dell’entertainment berlusconiano penetrato in profondità nella (in)cultura di massa.

La straordinariamente efficace forma di comunicazione della discesa in campo dell’imprenditore di successo con una video-cassetta è stata in seguito oggetto di imitazione, ma non di non altrettanta incidenza. Addirittura, l’incipit berlusconiano «L’Italia è il paese che amo» si trova replicato quasi verbatim nel Manifesto dei valori del Partito democratico nel 2007: «Noi, democratici, amiamo l’Italia».

Questa solenne affermazione contiene evidentemente elementi nazionalistici facilmente traducibili in slogan come “Prima gli italiani” che nessun uomo politico repubblicano aveva mai fatto suoi prima del 1994. Tentare la combinazione di un sano patriottismo con un europeismo virtuoso non fu mai un obiettivo prioritario per Berlusconi.

Anzi, la decrescita del grado di appoggio e di approvazione delle istituzioni europee fra gli elettori italiani comincia proprio con Berlusconi, dal suo euroscetticismo e dalle sue critiche all’Europa rea di fare valere regole comuni agli stati-membri. Oggi che Forza Italia è europeista, sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini con i loro elettorati a essere beneficiati da quegli atteggiamenti e comportamenti di tempo fa.

Conflitto di interessi

La persona di Berlusconi ha a lungo incarnato il conflitto di interessi che intercorre fra i molti interessi privati dell’imprenditore e le decisioni pubbliche che deve prendere l’uomo di governo. Qui non interessa tanto la blandissima regolamentazione introdotta dalle legge Frattini quanto il rapporto fra il conflitto di interessi e la tanto sbandierata e spesso rimpianta rivoluzione liberale che molti commentatori del Corriere della Sera sostennero essere un obiettivo, forse il massimo, perseguito da Berlusconi.

Come un duo-polista, nel settore della comunicazione televisiva, proprietario di grandi aziende potesse “liberalizzare” il sistema economico italiano è un mistero non glorioso che non c’è bisogno di rivelare. D’altronde, i pochi parlamentari definibili come liberali che Berlusconi fece eleggere in parlamento non furono rondini che annunciassero l’avvento di una primavera di bellezza nel sistema sociale, economico e politico italiano.

L’eredità

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Da ultimo, aspetto totalmente trascurato dai commentatori e dagli studiosi, Berlusconi fu per necessità, ma anche per scelta, l’inventore dei governi che non chiamo tecnici, ma “non-politici”. Nessuna elezione trasforma un imprenditore in un politico, né Berlusconi, giustamente, accettò mai questa qualifica.

Il primo governo formato da Berlusconi è una compagine nella quale i non-politici si stagliano sui pochi politici per di più non collocati nei ministeri più importanti. Non provenivano dal mondo della politica Antonio Martino, ministro degli Esteri, Giulio Tremonti alle Finanze, Lamberto Dini al Tesoro, Cesare Previti alla Difesa, Stefano Podestà all’Università e Istruzione, Domenico Fisichella ai Beni culturali e Giuliano Urbani alla Funzione pubblica. Nessuno di loro aveva mai avuto prima d’allora cariche politiche.

In qualche modo, tutti i governi non politici che seguirono da Dini a Monti e Draghi sono debitori alla filosofia “non politica” che stava a fondamento del primo governo Berlusconi: la società civile ne sa molto più dei politici “di professione”.

Questa filosofia politica ha avuto un enorme successo, come dimostra la polemica anti casta alimentata, forse non del tutto deliberatamente dal Corriere della Sera, e cavalcata da molti giornalisti. Qui sta l’ultimo lascito berlusconiano nella politica italiana: incomprimibili tratti di populismo secondo i quali chi ha i voti ha acquisito il diritto di comandare travolgendo la separazione dei poteri e l’autonomia del parlamento e del sistema giudiziario.

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