Marco – il nome è di fantasia come tutti quelli dei minori citati in questa storia – è un bambino di otto anni con una sorella più grande, di dieci. Vive a Roma e a scuola, poco prima che iniziasse il lockdown, ha spiegato che da grande sarà una femmina, Lorenza. Per il momento, sostiene che il suo cervello sia diviso a metà tra maschio e femmina e preferisce indossare abiti femminili.

Il maestro, fin dal primo giorno delle elementari, ha mostrato supporto nei suoi confronti mentre alla scuola materna spesso le insegnanti lo obbligavano a togliersi i fermagli che indossava sui capelli lunghi e questo, secondo i genitori, gli creava disagio.

«Quando aveva quattro anni», spiega sua madre, «raccontava questa storia di fantasia: lui era una bambina nata in una città straniera, però suo papà, quando è andato a prenderla, siccome una bambina ce l’aveva già, gli ha attaccato il pisellino». Inizialmente i genitori hanno vissuto questa situazione con disagio, paura, poi hanno scelto, anche su suggerimento degli psicologi che lo seguono per un disturbo dell’attenzione, di far crescere Marco liberamente, senza vietargli vestiti, giochi o atteggiamenti in contrasto con il genere maschile assegnato alla nascita. «A scuola non ci sono problemi. Ma capita che venga fermato per strada da adulti che gli chiedono perché ha una gonna pur essendo un maschio, e lui ci rimane male. Vorremmo che questo stigma non ci fosse. Conosciamo storie di genitori denunciati ai servizi sociali dai nonni secondo cui stavano rovinando i figli con la loro permissività. Questo per noi è molto pesante».

«Il genere non è una gabbia»

La famiglia di Marco è tra i soci di Genderlens, la prima associazione italiana che riunisce genitori di bambini trans, ovvero che non si riconoscono nel genere maschile o femminile assegnato alla nascita, o gender creative, cioè che non si riconoscono in maniera esclusiva in un unico genere. Al lavoro da quattro anni, gli studiosi, attivisti e genitori che animano Genderlens, un centinaio di famiglie, hanno scelto di costituirsi in associazione a marzo per far crescere nel Paese una cultura che non consideri patologia la realtà trans. Michela Mariotto, tra le fondatrici, è antopologa, ricercatrice all’università autonoma di Barcellona, dipartimento di psicologia sociale, dove si è occupata di bambini gender variant: «Mi ero accorta che, rispetto all’attivismo spagnolo, in Italia c’era pochissimo e il racconto della varianza di genere avveniva solo attraverso una terminologia medica. Si parla spesso di disforia di genere dove disforia indica un disagio che non sempre c’è, soprattutto nell’infanzia, mentre c’è lo stigma sociale. Facciamo formazione nelle scuole e nelle università e penso sia un progetto utile a tutti, non solo alle persone gender variant. Lavoriamo anche per far crescere la consapevolezza che il genere non è una gabbia: una ragazza può essere volitiva, un maschio dolce e sensibile e così via. Un bambino che gioca con le bambole non è per forza un bambino trans».

Cosa dice la psicologia

Tra le rivendicazioni politiche c’è l’adozione semplificata, cioè ottenuta senza passare attraverso perizia psichiatrica, delle carriere scolastiche alias, ovvero poter iscrivere i bambini nei registri con un nome diverso rispetto a quello assegnato alla nascita. L’associazione chiede inoltre un approccio più flessibile nella prescrizione dei bloccanti, medicinali dall’effetto reversibile che ritardano la pubertà e possono aiutare gli adolescenti, dando loro tempo in più, a riflettere sul proprio genere prima che il  corpo cambi. L’approccio scientifico è quello affermativo adottato soprattutto in Nord America e Spagna e descritto da Diane Ehrensaft in Il bambino gender creative (Odoya). «L’approccio affermativo,  spiega Federico Ferrari, psicologo, psicoterapeuta, membro Sipsis (Società italiana di psicoterapia per lo studio delle identità sessuali) – sostiene che, poiché l’identità di genere si stabilizza entro il terzo anno, a 6-7 è possibile riconoscere con chiarezza questa identità e attivare da subito la transizione sociale (ad esempio attraverso la carriera scolastica alias, ndr.) e questo aiuta il minore a evitare traumi e stress. C’è un altro approccio, però, che viene chiamato di attesa vigile, secondo cui è molto difficile distinguere tra l’identità di genere nucleare, profonda, e l’espressione di genere dei bambini, specie in una fase di importante sperimentazione. Secondo questo approccio, il bambino va accompagnato ma lasciando aperto uno spazio in cui mentalizzi la possibilità di poter restare nel genere assegnato. Anche perché oggi non ragioniamo più per logiche strettamente binarie, maschio o femmina».

Quello che la psichiatria oggi rifiuta è l’approccio riparativo, ogni tentativo di sopprimere l’espressione libera del bambino. Secondo Genderlens, pulsioni riparative sono forti nella società italiana e si vedono, ad esempio, nella «paura del contagio sociale», ovvero i casi in cui genitori di compagni di classe di bambini gender variant lamentano possibili influenze negative.

Paolo, un ragazzo trans di diciassette anni che vive a Modena con la madre, ha da poco iniziato la sua affermazione di genere. «Con me», racconta la madre, «ha fatto coming out a Natale. Era soggetto a crisi di panico, avevamo un conflitto molto forte e non capivo il suo disagio». Dopo essersi rivolto a uno sportello di aiuto psicologico, a Paolo è stata diagnosticata una sindrome depressiva e disforia di genere. «Mi ha detto di essersi sempre sentito maschio, ma di non essere mai stato in grado di esprimerlo». Paolo ha iniziato ad assumere bloccanti, a breve ci sarà l’udienza in tribunale per il cambio anagrafico, in futuro inizierà un trattamento ormonale. Secondo quanto prescrive la legge, è obbligatorio acquisire i pareri di psicologi, psichiatri, endocrinologi. «Per Paolo e per me è molto faticoso, si cammina sui carboni ardenti e alla base di ogni colloquio c’è una presunzione di colpevolezza, un non voler credere a quello che una persona dice di essere». Maric Lorusso, dottor* in psicologia clinica, attivista non binario e collaboratore di Genderlens, parla di un approccio gate keeping, che vede gli psicologi, medici e giudici come arbitri, decisori: «Sono ancora in voga modi di agire che perpetuano uno stereotipo sulle identità trans, come se fossero persone incapaci di decidere autonomamente. Il supporto psicologico,  per chi vive forte disagio, può aiutare soprattutto a superare le pressioni sociali, le micro-aggressioni che affrontiamo tutti i giorni, ma dovrebbe essere una scelta, non un obbligo». La questione è più complessa quando si parla di minori, ma secondo i genitori di Genderlens anche rifiutarsi di ascoltare le richieste dei minori gender variant è una scelta con delle conseguenze.

Cecilia, una traduttrice e interprete spagnola che vive a Torino da molti anni, ha due figli: la più grande, 12 anni, è una bambina che si riconosce cioè nel sesso assegnato alla nascita (cisgender) mentre Alberto, otto anni, ha una identità fluida. Fin da quando ha iniziato a parlare, a due anni e mezzo, quando è a casa si riferisce a se stessa al femminile. «Un giorno era in bagno con sua sorella, entrambi nudi, e ho sentito la grande che le spiegava che lui aveva il pisello come il papà, e che quindi sbagliava a parlare di sé al femminile. Aveva tre anni, ricordo ancora il suo volto, la sua profonda delusione, incredulità, come quella di una persona buttata fuori da una festa». Cecilia ha iniziato a consultare diversi medici e centri specializzati, in uno di questi era stata consigliata di lasciare Alberto esprimersi a casa liberamente, ma di fargli anche capire che, fuori, le aspettative sociali sono diverse. «Facevano riferimento  uno studio per cui in otto casi su dieci i bambini gender variant tornano, dopo un periodo di sperimentazione, al genere assegnato alla nascita. Questo è studio è stato smentito e, comunque, se mio figlio non è tra questi otto? Dopo un periodo di confronto, ho deciso di allontanarmi. Alberto sviluppa un forte disagio ogni volta che è in procinto di chiedermi il permesso di indossare il cerchietto a scuola, o un costume di Carnevale da principessa. Quando ha ottenuto il permesso, si rasserena. Mio figlio non ha bisogno dello psichiatra. Ha bisogno di vivere in contesti più rispettosi e comprensivi». Attualmente Alberto porta i capelli lunghi, indossa accessori femminili ma mantiene il suo nome e, a scuola, utilizza il bagno dei maschi e si fa chiamare al maschile. Ci parliamo brevemente finita l’intervista con la madre, del cui supporto è orgoglioso: «Se non c’ero io», dice, «mia mamma non si sarebbe mai impegnata in Genderlens. Per me è un’associazione molto importante che, come dico ai miei compagni di classe, spiega ad adulti e bambini che non tutti siamo solo maschi o solo femmine e che ognuno può essere come meglio si sente».

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