Se l’abuso d’ufficio dovesse essere giudicato solo dal numero di condanne cui ha portato, si potrebbe dire che si tratta di un reato «evanescente», come l’ha definito il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Nel 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio Gip/Gup (giudice per le indagini preliminari/giudice dell’udienza preliminare) ci sono state 4.613 archiviazioni, 9 sentenze di condanna e 35 patteggiamenti. All'esito del dibattimento, poi, su 513 procedimenti le condanne sono state 18. Ma per comprendere meglio il tema serve qualche considerazione ulteriore.

L’eliminazione del reato di abuso d’ufficio viene motivato con la necessità di contrastare la burocrazia difensiva, causa di inefficienza amministrativa. Si tratta della “paura della firma”, che induce i pubblici funzionari a evitare di assumere decisioni utili per la collettività, preferendone altre meno impegnative o addirittura restando inerti, per timore di esporsi a eventuali addebiti penali. E non solo. Come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 8/2022), il mero rischio di «coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante». Queste conclusioni omettono di considerare che il funzionario pubblico è spesso spinto a restare immobile a causa della complessità e mutevolezza di regole e procedure, e della conseguente imprevedibilità delle decisioni dei giudici amministrativi. Norme più semplici e chiare metterebbero funzionari e amministratori in condizione di sapere sempre se, cosa e come possono fare e firmare, rendendoli meno incerti, quindi più efficienti. Gli impatti normativi andrebbero sempre valutati su ogni piano e in ogni direzione.

Dunque, devono essere considerati non solo quelli prodotti dalla norma sull’abuso, ma anche quelli derivanti dalla sua abrogazione. Quest’ultima potrebbe determinare l’effetto di una riespansione di altre ipotesi penali nelle quali è presente l’abuso: la corruzione, con cui il pubblico ufficiale abusa della sua funzione, facendone oggetto di “commercio” illecito; la concussione, con cui egli ne abusa attraverso una condotta sostanzialmente estorsiva; il peculato, ove l’abuso avviene mediante l’appropriazione di beni pubblici. In altre parole, cittadini che ritengano di avere subito un abuso da un funzionario pubblico potrebbero comunque accusarlo di reati anche più gravi dell’abuso d’ufficio. Dunque, la paura della firma potrebbe non attenuarsi, anzi.

Per altro verso, l’eliminazione dell’illecito in esame potrebbe creare “zone franche”, cioè lasciare dei vuoti. La presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha rassicurato che tali vuoti saranno colmati mediante una revisione complessiva dei reati contro la pubblica amministrazione. Allora ci si domanda perché tale revisione non sia stata avviata contestualmente all’abolizione dell’abuso di ufficio, per colmare le lacune.

Domanda retorica per un governo che finora si è segnalato per norme talora inutili e pure dannose, adottate sull’onda emotiva o fondate su rivendicazioni ideologiche, più che su razionali stime dei loro impatti.

L’eliminazione del reato non sembra incorrere in vizi di costituzionalità (art. 117) per contrasto con Convenzione Onu contro la corruzione (Convenzione di Merida, ratificata dall’Italia nel 2009), in quanto essa pare prevedere non l’obbligo di sancire certe ipotesi delittuose, ma solo la facoltà.

Invece, un contrasto vero e proprio si avrebbe rispetto alla proposta di direttiva dell’Ue sulla lotta alla corruzione, ove approvata. La direttiva – contro la cui presentazione la Camera ha votato nel luglio scorso – è stata voluta dalla Commissione Ue a seguito del Qatargate. Essa rende obbligatoria per gli Stati membri la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio, oltre che del traffico di influenze e di altre fattispecie.

A seguito del voto sull’abolizione dell’abuso d’ufficio, l’Ue – ribadendo quanto già affermato nell’ultima relazione sullo stato di diritto, con riguardo all’Italia – ha fatto presente che così si indebolisce la lotta alla corruzione. La Lega ha replicato che si tratta di una «intromissione» dell’Ue, forse non considerando la direzione in cui stanno andando i paesi europei, con la proposta di direttiva, mentre l’Italia procede in senso opposto. Ma forse a questo governo ciò non interessa.

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