Superare la frattura centro-periferia, solo così si può battere la destra

In molte democrazie crescono i consensi di formazioni radicali accomunate da una forte critica alle classi dirigenti. E regolarmente, il giorno dopo le elezioni fioccano i commenti all’insegna dello stupore: com’è stato possibile? Per evitare di sorprenderci a ogni tornata elettorale, abituiamoci a pensare che la linea di conflitto contro le classi dirigenti appartenga a una più vasta costellazione di conflitti che caratterizzano lo scenario politico contemporaneo. Che scaturisca da dinamiche tutt’altro che congiunturali. Pd, partito indispensabile. Sabotarlo è un errore Due costanti È indubbio che l’innovazione tecnologica e l’elevata frammentazione sociale impongano alla politica democratica una postura market oriented tipica della “campagna permanente” che caratterizza la nostra epoca. L’opinione pubblica diventa sempre più un mercato da inseguire in tempo reale per un riposizionamento continuo di leader e partiti, per mezzo di effetti annuncio, in un contesto di volatilità e riallineamento degli elettori e cicli di leadership sempre più brevi. Tuttavia, in questo mare di incertezza, emergono due tendenze costanti. La prima è la polarizzazione ideologica o affettiva. Gli elettori di destra e di sinistra sono su posizioni sempre più distanti. La seconda ha a che fare con la cesura fra voto urbano e voto periferico. Queste due tendenze stanno dando forma a una nuova “linea di frattura”, motivata da fattori di diversa natura: tecnologici ed economici, ma soprattutto culturali e psico-sociali. Li possiamo cogliere appieno solo considerando la dimensione territoriale. Infatti, in diverse democrazie, nei grandi centri urbani tende a vincere la sinistra liberal-progressista, mentre nelle aree periferiche tende a vincere la destra conservatrice. È l’effetto dei processi di globalizzazione: oggi la produzione dei valori avviene su un piano globale, ed è a quel livello che dobbiamo rintracciare le origini dei processi generativi dei conflitti. Esiste un nuovo centro, ossia il nucleo produttore dei valori di massa contemporanei. Un centro globale e diffuso, i cui nodi sono le metropoli nelle quali si prendono decisioni che hanno conseguenze in tutto il mondo e ne plasmano valori e immaginario, ospitando i vertici dell’alta finanza, dell’editoria, del sistema mediale, del marketing e della pubblicità, dello show business, dell’industria culturale, delle agenzie e delle organizzazioni internazionali, di molti centri di ricerca, think tank e Università. Ossia, il terziario avanzato. Almeno sino al secondo mandato di Donald Trump, sotto il profilo politico, questa parte tende a collocarsi a sinistra, una sinistra liberal, progressista e favorevole alla globalizzazione, molto focalizzata, sulle identity politics e sulla produzione culturale. È il risultato, di lungo periodo, di quella che Ronald Inglehart, nel 1977, definì rivoluzione silenziosa, ossia il graduale slittamento dalla centralità dei valori materialisti e dei bisogni primari alla centralità dei valori post-materialisti. Questi ultimi sono chiaramente legati alla società del benessere e al consumismo. La società contemporanea, consumistica e dell’immagine, è caratterizzata da posizioni forti su alcuni temi “sensibili”: orientamenti sessuali, stili di vita, genitorialità. Le nuove sensibilità legate a questi temi hanno permeato le agende dei partiti di sinistra e prodotto cambiamenti tanto nelle politiche pubbliche quanto nella comunicazione, fino a scontrarsi con il proprio opposto. I cosiddetti “sconfitti della globalizzazione” costituiscono una buona parte dei nuovi voti conservatori in diverse democrazie occidentali e, secondo Ronald Inglehart e Pippa Norris rappresentano un prodotto di un contraccolpo culturale. Ossia, la rivoluzione dei valori, silenziosa ma continua, avviata sul finire degli anni Sessanta del Novecento è giunta al punto da indurre un’ampia quota di elettori a reagire, nella convinzione che i propri valori e stili di vita siano minacciati. Tale dinamica, ricostruita da Inglehart e Norris, costituisce una parte del processo di polarizzazione presente in molte società contemporanee. È opportuno aggiungere che anche l’altra parte di tale processo rappresenta un risultato di lungo periodo e, anche in questo caso, origina dagli anni Sessanta. Infatti, Robert Putnam ha ricordato che «ci sono stati due anni Sessanta e non uno». Se guardiamo agli Stati Uniti, prima dell’insorgenza dei movimenti “progressisti” alla metà degli anni Sessanta, hanno inizio le trasformazioni nella destra, su iniziativa delle élite conservatrici contrarie all’espansione del Welfare state, che producono, nel corso degli anni Settanta, maggior identificazione partitica e radicalizzazione. L’offerta politica e ideologica neo-conservatrice trova ampio margine nei settori sociali e nei luoghi più lontani dai “centri” metropolitani e può contare su reti universitarie, think tank, emittenti radio locali e, più recentemente, social media, legati a narrazioni alternative alle parole d’ordine progressiste. Nuova corrente Pd, l’organizzazione c’è ma manca il pensiero La linea di frattura emergente L’etichetta che potrebbe definire meglio la frattura contemporanea più importante tra destra conservatrice e sinistra liberal – che si riflette nella differenza marcata tra voto metropolitano e voto periferico – potrebbe essere denominata interno-esterno (in/out). Chi è “in” e chi è “out”, sia in termini di valori dominanti, sia in termini di stili di vita, di comportamenti di acquisto, di “adeguamento alla contemporaneità”, si decide nei motori del terziario avanzato costituiti dai grandi centri urbani. Questi motori sono i “nodi” della globalizzazione: si inseguono, si imitano, si influenzano a vicenda, plasmando l’immaginario condiviso a livello globale. Infatti, i centri di produzione delle narrazioni contemporanee e di promozione dei relativi stili di vita sono situati nelle grandi città “interne” ai flussi globali, e riflettono una cultura che veicola un giudizio di valore molto positivo in merito alla globalizzazione e che tende a svalutare la voce di quanti da tali processi risultano penalizzati o esclusi, che reagiscono aggrappandosi a quanti offrono ancoraggi identitari apparentemente immediati (ad esempio, un’idea omogenea di nazione). L’emersione e la reiterazione di tale contrapposizione suggerisce l’ipotesi di una graduale ristrutturazione dello spazio politico lungo questo conflitto. Più sarà forte e polarizzante, più ne risulteranno premiati leader e partiti in grado di evocarla, mentre risulteranno penalizzati i partiti e i leader che non si collocheranno all’interno di questa dicotomia. Guerini: «Pd e M5s non possono evitare ancora a lungo il tema della difesa. Il leader? Da solo non basta» Il caso italiano In tale contesto, il caso italiano è particolarmente interessante, poiché consente di riscontrare, al contempo, un allineamento delle forze politiche sulla linea di conflitto interno/esterno (soprattutto attorno ai temi identitari di Pd e FdI) e la persistenza di alcune storiche caratteristiche culturali. Prendiamo ad esempio i risultati elettorali del 2022. La coalizione più votata risulta il centrodestra, con il 43,8 per cento, mentre il centrosinistra raccoglie il 26,1 per cento. Questo distacco fra i poli, però, varia sensibilmente a seconda dei contesti. Solo nella ex zona “rossa” dell’Italia centrale il centrosinistra riesce a essere competitivo anche fuori dai grandi centri, altrove la situazione è più critica. Ad esempio, nei micro-comuni del Nord il vantaggio del centrodestra è di 35 punti percentuali. Ricorda Vincenzo Emanuele: «Nelle città con oltre 100.000 abitanti (inclusa Roma) abita il 23,3 per cento della popolazione contro il 40,1 per cento che invece risiede in comuni inferiori ai 15.000 abitanti». Le elezioni si vincono in provincia, dove il centrosinistra è più debole. Per essere davvero competitivo deve ricostruire sintonie con chi abita la provincia. Marco Almagisti ha da poco pubblicato La democrazia in Italia Storia e geografia di un sistema politico (Carocci) [Missing Caption][Missing Credit]