Una manovra per disinnescare Matteo Salvini, ridotto al ruolo di chi promette mare e monti ma alla fine deve fare i conti – nel vero senso della parola – con palazzo Chigi. E deve inchinarsi di fronte a chi in quella sede comanda, ossia, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, regista dell’operazione.

La Nadef contiene anche un’ulteriore beffa per il leader della Lega. A dare man forte alla premier nella linea di non fare concessioni è stato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che è uno dei vicesegretari del partito di Salvini.

Il vicepremier, comunque, ha ostentato serenità. «Fortunatamente la mia passione per la pesca e la ricerca dei funghi mi consente un approccio zen», ha detto nel day after del Consiglio dei ministri che lo ha messo all’angolo. Ha respinto le ipotesi di tensioni con Giorgetti, buttandola sul calcio: «Ci litigo per motivi sportivi, perché è juventino. Con Giorgetti e Meloni non pensavo potesse andare così bene per i primi undici mesi». Il tentativo è di non inasprire gli animi in pubblico.

«A noi la Nadef è andata benissimo», spiegano ancora nell’inner circle del vicepremier, sostenendo che le ricostruzioni giornalistiche sono fantasiose. Ma sorvolando sul fatto che i retroscena hanno riportato lo spin comunicativo di Meloni. E che non ci sono risorse per le promesse salviniane.

Quote in sospeso

Restano agli atti le promesse snocciolate dal segretario leghista sulla pace fiscale, i condoni edilizi, le misure contro l'inflazione, che rischiano di diventare un macigno in vista delle prossime europee. Perché va bene fare un po’ di propaganda, ma la Lega è oggi tra gli azionisti di governo, non una forza politica di passaggio.

Qualcuno chiederà conto a Salvini della mancata realizzazione della riforma delle pensioni, la madre di tutte le promesse del segretario leghista? Ancora una volta il controcanto è arrivato da Giorgetti. «Con questo livello di natalità nessuna riforma tiene», ha dichiarato il ministro dell’Economia, allontanando l’opzione di un intervento entro la legislatura. Sbiadisce quindi il sogno di quota 41 per le pensioni, cioè l’obiettivo di mandare in pensione un lavoratore dopo 41 anni di contributi versati. Un mantra ripetuto nel corso della campagna elettorale dello scorso anno. Nella migliore delle ipotesi ci si dovrà accontentare della formula-palliativo di Quota 103, tanto per cantare vittoria sul parziale superamento della legge Fornero.

Promesse al vento

Altrettanto impallidito l’impegno di introdurre la flat tax. Una questione che è stata eliminata dal tavolo per i lavoratori dipendenti. Entro la fine del 2023 dovrebbe arrivare la revisione degli scaglioni Irpef nell’ambito dell’attuazione della delega fiscale.

Appeso a un filo un altro pallino di Salvini: l’estensione della tassa piatta a chi fattura 100mila euro all’anno. Era uno dei punti del programma della Lega. Nell’ultima manovra c’è stato un rialzo, il governo probabilmente non inserirà l’ulteriore cambiamento nella legge di Bilancio ma lascerà spazio agli emendamenti parlamentari.

L’esecutivo ha però l’intenzione di blindare il cammino della manovra. La dotazione per gli interventi di deputati e senatori dovrebbe essere una delle più basse di sempre: lo scorso anno il plafond ammontava a 400 milioni di euro; la cifra potrebbe dimezzarsi o quasi. I margini di azione saranno ridotti per la Lega, mettendo in soffitta il proposito di abolire il canone Rai, come ripete di tanto in tanto il vicepremier, rilanciando la battaglia contro un balzello molto impopolare. Finita nelle nebbie delle scarse risorse, poi, la reintroduzione delle elezioni per le province, cavallo di battaglia dei comizi estivi. Sui salari dovrà accontentarsi del rifinanziamento del taglio al cuneo fiscale.

Un ponte scialuppa

Resta il Ponte sullo Stretto, l’ultimo appiglio per dimostrare che è possibile mantenere la parola data. «Vuole farlo diventare il Ponte di Salvini, entrare nella storia per quello», confidano ambienti leghisti. Secondo il ragionamento del ministro sarebbe il segno distintivo dell’esecutivo, che lo vedrebbe protagonista.

Fino a lanciarsi in improvvidi parallelismi. «C’erano i “no” cupola quando Brunelleschi partì con l’ardito progetto della cupola a Firenze», ha sostenuto ieri e ha garantito «l’apertura dei cantieri per il ponte nell’estate 2024». Un mega spot per le europee. Salvini vuole diventare il padano che unisce Calabria e Sicilia, realizzando a posteriori l’antico sogno di Silvio Berlusconi.

Sul tema potrebbe ottenere qualcosa. «Le risorse per le infrastrutture, compreso il Ponte sullo Stretto, rientrano tra gli investimenti e non alla voce della spesa corrente. È possibile destinare dei fondi in quella direzione», spiegano dal Mef. Meloni è disposta a fare una concessione e ha fatto pervenire un messaggio al suo alleato, con la sponda di Giorgetti, per tranquillizzarlo.

Bisogna vedere, però, quanto sarà messo sul piatto, se uno strapuntino o l’intera somma necessaria. Perciò il leader leghista ha avanzato una precisa richiesta: «L’obiettivo è che entro dicembre ci sia la copertura economica dell’intero costo che non dovrà superare i 12 miliardi». Almeno all’ombra del ponte potrà nascondere la mancata abolizione del canone Rai, lo slittamento sine die di quota 41 per le pensioni e l’andamento a rilento dell’autonomia differenziata. Insieme alle altre promesse fatte nel tempo.

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