Comparsate televisive, bagni di folla, cene elettorali, promozione sui social, volantini. Qual è la strategia ideale per essere eletti? Ah, saperla. Per questo tutto intorno si affannano guru o presunti tali, consiglieri e intellettuali di ogni risma, a suggerire, a indicare magnifiche sorti e progressive. La soluzione chiavi in mano non c’è, bisogna farsene una ragione.

Senza arrendersi: esiste un prontuario minimo, in base all’esperienza, di cose da fare o da evitare. Certo, la vita da candidato o da candidata ha una solida certezza: il sonno arretrato. Lo dice chiunque, tra il serio e il faceto, abbia vissuto in prima linea la campagna elettorale. È l’effetto collaterale della “sindrome del candidato”.

Non c’è via di scampo all’adrenalina che spinge a vivere un mese abbondante in apnea, con il piede sull’acceleratore. Eppure non è sufficiente a sfuggire dalle occhiaie da nascondere rigorosamente dietro il sorrisone rassicurante da diffondere nell’etere e da mostrare agli elettori a ogni stretta di mano nei comizi. L’agenda è sempre zeppa.

Tanti soldi

Per le europee la campagna ha un coefficiente di difficoltà ancora più elevato, forse il massimo, rispetto a qualsiasi altra competizione. C’è questo oggetto ormai misterioso che si chiama preferenza: l’elettore deve scrivere il nome del candidato, sceglierlo. Per questo occorre pure un portafogli bello pieno, la spesa è bella esosa, intorno ai 50mila euro.

Ognuno è conscio che mettere piede nell’Europarlamento, apporsi al petto il titolo di Mep, oscuro acronimo di Member of the European Parliament, è una svolta per la carriera. Sia che si tratti del parcheggio di qualche grande vecchio sia che si parli di un neofita, al primo appuntamento sulla via delle istituzioni Ue. Quindi bisogna investire di tasca propria. Nei fatti eliminando dalla competizione chi non ha una buona capacità di drenare risorse con cene elettorali e donazioni private. Oltre alla dotazione di partenza.

Del resto, si sa, nella vita più grande è l’ambizione e più difficile è il raggiungimento del risultato: bisogna girare come una trottola per raggranellare un po’ di voti, qua e là. Una faticaccia. A meno che, ovviamente, non si tratti di un big con l’elezione già in tasca. Una fortuna per pochi.

I candidati e le candidate semplici sanno di dover consumare le suole delle scarpe, ma soprattutto gli pneumatici delle loro auto per girare in lungo e in largo la propria circoscrizione. Volenti o nolenti, il mezzo di trasporto personale è l’unico impiegabile.

Troppo difficile far ricorso ai mezzi pubblici: si rischiano ritardi con l’effetto boomerang di far infuriare gli elettori. Agli annali ci sono decine e decine di multe accumulate tra un incontro elettorale e l’altro.

Di fronte a un potenziale ritardo non si guarda il tachimetro, nemmeno se nei paraggi è attivo un autovelox. La campagna elettorale non è una passeggiata turistica tra le italiche bellezze. Ne sa qualcosa la forma fisica, tra chi tende a mettere su qualche chilo e chi invece a dimagrire come mai è capitato.

Di sera si può restare digiuni, perché si è fatto tardi. Ma in alcuni territori le cene locali, con formaggi, salumi e piatti tipici, sono momenti conviviali. Anche con un occhio a “fare qualche voto” in più.

Faccioni sui manifesti

Alle europee la necessità di fare presto è imprescindibile. Ci sono cinque circoscrizioni con un’estensione geografica sterminata. Tanto per capire, quella del Sud va dalla Calabria all’Abruzzo, la nord-orientale abbraccia dal Veneto all’Emilia-Romagna e così via. Coprire palmo a palmo l’intero territorio è umanamente impossibile.

Allora bisogna spendere al meglio ogni stilla di energia, pianificando gli eventi nei minimi dettagli, mappa alla mano per valutare le distanze tra città, il tempo di spostamento, il traffico negli orari previsti.

E quindi cosa bisogna fare nel concreto? Le campagne elettorali dei tempi moderni sono un mix di vecchia propaganda e nuove forme di comunicazione. Volantini e promozione social marciano uniti verso lo stesso obiettivo: l’elezione. Il porta a porta ha sempre il suo fascino, per questo serve organizzare per tempo dei presidi sul territorio con un manipolo di – temerari – simpatizzanti che picchettano l’area per distribuire un po’ di materiale. Possibilmente da mesi prima dell’avvio ufficiale della campagna elettorale.

E qui i primi quattrini investiti finiscono nella pattumiera, nel vero senso della parola: i volantini ingolfano quasi sempre i bidoni della carta. Poco male. Sono utili a rendere riconoscibile il faccione dell’aspirante eurodeputato. Sul territorio si combatte una battaglia cruenta per la politica: l’attacchinaggio. Manifesti che vengono incollati e strappati nel giro di poche ore: uno sforzo che richiede un’organizzazione paramilitare – si fa per dire – dei sostenitori.

Staccare il ticket

Alla base di qualsiasi ambizione c’è la necessità di pensare a un ticket con un candidato/a dell’altro genere, in base a un calcolo politico, perché c’è il voto alternato. Chi ha più voti in una determinata regione deve stringere un patto con un compagno o compagna di lista che ha radicamento in tutt’altro territorio. Per darsi una mano a vicenda. Un matrimonio di convenienza, nulla più. O meglio, una convivenza forzata per un mesetto.

Ma qui chiunque scandagli gli abissi della politica sa che scatta, implacabile, la vecchia sindrome del candidato, ossia quella malcelata tentazione di chiedere davvero solo il voto per sé. In fondo in lista ci sono dei potenziali avversari. Va bene tutto: il risultato del partito, quindi l’impatto sullo scenario nazionale, le percentuali analizzate dai leader.

Ma a chi compete con il proprio nome interessa solo una cosa: prendere una preferenza più degli altri, compresi colleghi di lista. In pubblico viene chiesto di votare due nomi, ma in confidenza, sottovoce alla fine dell’incontro ufficiale, viene spiegato che è importante scrivere il proprio nome. Lo fanno quasi tutti, chi dice il contrario… fa promesse da campagna elettorale.

Che fatica, insomma, tenere insieme l’immagine pubblica e l’ambizione personale. Oltre al ticket, che è già una bella scalata, serve un altro elemento fondamentale: il budget. In un tempo antico della politica, un’èra geologica fa, i partiti mettevano a disposizione un po’ di soldi, soprattutto per le candidature di punta.

Oggi, con la cancellazione del finanziamento pubblico, ognuno fa per sé, organizzando cene elettorali, incontri, eventi per favorire le donazioni dei simpatizzanti.

Per quanto si possa andare al risparmio, i 50mila euro sono la base. I soldi servono sempre, dalla stampa dei vecchi volantini all’acquisto di spazi pubblicitari su giornali e siti. Con un occhio di riguardo a quelli più letti nella circoscrizione in cui si corre.

Social & tv

I social, poi, sono irrinunciabili anche per il più nostalgico dei porta a porta. E qui si apre il mare magnum di decisioni, affidandosi – spesso last minute – all’agenzia di turno, a cui si chiedono miracoli per forgiare un’immagine digitale che richiede anni, non certo pochi giorni. Perciò si fa quel che si può: video, post, meme. Con l’attenzione a evitare errori pacchiani.

E con la televisione, come ci si comporta? La vanità è un atavico vezzo inestirpabile in qualsiasi candidato/a. La presenza nei salotti per pontificare sullo scibile politico, tra una promessa mirabolante e l’altra, è troppo affascinante. È balsamo per l’ego.

Eppure, a parlare con gli esperti, serve a poco, giusto a rendere un minimo più visibile il volto del candidato, mentre risucchia tempo prezioso, tra raggiungimento degli studi, trucco e parrucco.

Si perde una mezza giornata, che significa almeno un paio di eventi pubblici. E poi, per sua natura, il piccolo schermo ingurgita tutto velocemente, le comparsate nei talk show non restano nella memoria dell’elettorato, nello zapping feroce che mescola la tribuna politica all’ultima puntata della serie televisiva più famosa del momento. Nella maggior parte dei casi, lo spazio in tv non fa guadagnare un voto. Spiegarlo al candidato/a è missione impossibile. Come l’elezione per molti.

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