Qualunque etichetta applicata a Toni Negri, morto ieri a Parigi all'età di 90 anni, è riduttiva, incapace di delineare un personaggio troppo poliedrico per essere incasellato in un'unica definizione.

Divisivo anche quando arriva la notizia della fine della sua esistenza terrena e non poteva essere altrimenti. È contemporaneamente il grande filosofo di fama mondiale, il più giovane docente ordinario italiano, lo studioso indefesso e illuminante del marxismo operaista, il Marx oltre Marx adattato alla contemporaneità, il teorico della violenza di massa e però critico del terrorismo “elitista” della Brigate rosse di cui peraltro fu accusato ingiustamente di essere l'ideologo, il condannato per banda armata, associazione sovversiva, concorso morale in omicidio, l'assolto per una sequela di reati da ergastolo.

E infine il “cattivo maestro”, l'epiteto sdoganato, tra gli altri, da Indro Montanelli e ripetuto ora dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

Comunque, per fautori e detrattori, un imprescindibile protagonista del secolo breve protratto nei suoi tempi supplementari fino ai giorni nostri.

Nelle sue origini, il Dna variegato di una famiglia cattolica ma laica, nonno e padre comunisti, fratello maggiore infatuato di Mussolini, la scuola come riscatto dalle umili origini quando in questo paese funzionava l'ascensore sociale. Che Toni Negri prese fino ai piani più alti di una carriera precoce che lo porterà alla docenza universitaria, cattedra di filosofia politica a scienze politiche in Padova, a soli 34 anni.

In parallelo l'impegno politico da adolescente nell'Azione cattolica, nonostante la professione di ateismo, fino a diventarne un dirigente nazionale e all'espulsione in contrasto con il presidente conservatore Luigi Gedda, mentre la sua richiesta di iscrizione alla Democrazia cristiana fu respinta per le sue visioni eterodosse.

Poco più che ventenne optò per il partito socialista «perché sembrava libero da incrostazioni staliniste che ci davano molto fastidio fin da allora». Motivo per cui fu sempre critico con il partito comunista più tardi catalogato come ormai inserito nel potere dominante. La curiosità lo spinse ai viaggi in autostop in Europa, all'esperienza di un anno in un kibbutz israeliano.

Il varo dei primi governi di centrosinistra lo portarono lentamente ad allontanarsi dal Psi per affinare il proprio credo attraverso una feconda attività culturale che lo portò a fondare con altri la casa editrice Marsilio (nome omaggio a un filosofo del quattordicesimo secolo) e negli stessi anni, da tifoso del Milan, le Brigate rossonere, le uniche a cui aderì nonostante le accuse successive, perché non di solo pensiero ma anche di passioni popolari vive un filosofo.

Sessantotto ante litteram

In una sorta di Sessantotto prima del Sessantotto, quattro anni prima del fatale maggio, iniziò con Alberto Asor Rosa e Mario Tronti l'avventura della rivista Classe operaia, “mensile politico degli operai in lotta”, esperienza che sfocerà, in Potere operaio, l'organizzazione che, nei suoi intenti, doveva essere l'embrione di un futuribile partito neo-leninista.

È praticamente impossibile spiegare a un millennial, oggi, cosa fosse all'epoca il magma ribollente della sinistra extraparlamentare, attraversato da scissioni in nome di una variazione anche impercettibile di linea, quando il politico dominava l'esistenza e produceva fratture diventate a lungo andare il male endemico della sinistra italiana.

Basti sapere che il partito neo-leninista non nacque, Potere operaio si sciolse nell'Autonomia operaia.

Toni Negri si spende davanti alle fabbriche, organizza il movimento, sforna libri. In Il dominio e il sabotaggio scrive le parole che gli varranno come una condanna: «Nulla rivela a tal punto l'enorme storica positività dell'autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di questa attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere. Immediatamente mi sento il calore della comunità operaia e proletaria tutte le volte che mi calo il passamontagna... Basta con l'ipocrisia borghese e riformista contro la violenza».

La parola chiave per bollarlo come “cattivo maestro” è “passamontagna”, letta come una sorta di rivendicazione delle azioni del gruppo, in un periodo in cui non c'era giorno in Italia senza un attentato, un ferimento, un omicidio attuati da persone con il volto travisato.

Il 7 aprile del 1979 la resa dei conti con la retata ordinata dal giudice padovano Pietro Calogero di centinaia di aderenti all'Autonomia. Per Toni Negri le accuse sono lunghe come un rosario, rapimenti, omicidi, rapine, furti attentati. In più il giudice Achille Gallucci gli imputa la partecipazione al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro, opera delle Brigate Rosse.

Si sostiene che sia stato lui il telefonista della banda armata che annunciò la morte delle statista democristiano: errato la voce era quella di Valerio Morucci.

Nel carcere di massima sicurezza di Palmi in realtà Negri teme per la sua vita, alcuni brigatisti pare vogliamo ucciderlo a causa della linea di difesa che si è scelto.

Dirà Enrico Fenzi: «Una difesa che tagliava di netto tra movimento e lotta armata e condannava dunque quest'ultima al limbo di un'esistenza marginale che era meglio dimenticare al più presto. L'innocenza degli uni doveva essere pagata sottobanco con i secoli di galera tacitamente inflitti agli altri».

Saranno le confessioni del pentito Patrizio Peci a scagionare il professore, no non fa parte delle Brigate Rosse nonostante alcuni incroci con Renato Curcio agli albori della stagione del terrore.

Resta in carcere preventivo per alcuni delitti dell'Autonomia di cui è il dominus incontrastato quando nel 1983 Marco Pannella, vecchia conoscenza dei tempi della goliardia universitaria, gli propone di candidarsi alle elezioni con il Partito Radicale. La conquista di un seggio gli spalanca le porte del carcere.

Ne approfitta per fuggire in Francia e mettersi sotto la protezione della dottrina Mitterrand. Diventa un beniamino della vita politico-culturale parigina, insegna in diverse università, concede interviste. Promette che si farà estradare ma cambia idea.

E questa giravolta gli alienerà le simpatie di molti che ancora stavano dalla sua parte. Nel frattempo in Italia è stato condannato in contumacia a dodici anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale in una rapina ad Argelato dove venne ucciso un carabiniere.

Revisione

Tornerà nel paese natale solo nel 1997 dove finirà di scontare la pena, in parte agli arresti domiciliari.

Il suo percorso di revisione rispetto agli anni di piombo si rintraccia in alcune dichiarazioni pubbliche: «Oggi il problema non è più quello della riconquista violenta dello Stato, sono passati dieci anni è venuto il tempo della pacificazione. Se in passato ho peccato di leggerezza e irresponsabilità sarò più attento per il futuro».

All'inizio del nuovo Millennio manda alle stampe almeno due volumi cardine della sua produzione Impero e Moltitudine. Nel primo spiega che l'Impero serve a garantire la sopravvivenza dell'economia neo-liberista e, nel nuovo contesto globale, la categoria marxista di proletariato non coincide più con la sola classe operaia ma si estende a tutte le fasce sociali soggette alle forze dominanti.

La “moltitudine” globale degli sfruttati è la sola in grado di abbattere l'Impero sostituendolo con una reale democrazia. E sembra l'aggiornamento del famoso slogan «proletari di tutto il mondo unitevi».

Time inserisce Toni Negri nel novero delle sette persone «che stanno sviluppando idee innovative in diversi campi della vita moderna». Impero diventa una sorta di Bibbia per i movimenti no global e viene definito «la prima grande sintesi teorica del nuovo millennio».

Continuerà a scrivere fino alla soglia del 90 anni, una produzione immensa. Toni Negri è morto. Resteranno le sue contraddizioni. Resterà il suo pensiero, soprattutto la sua analisi critica del neo-liberismo grazie alla quale è diventato “buon maestro” per i molti che si sono accodati e ne hanno denunciato storture e disuguaglianze.

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