Il presidente della Repubblica può diventare re senza violare l’articolo 139 della Costituzione che stabilisce che la forma repubblicana non è sottoponibile a una revisione costituzionale? Il potere sovrano esercitato dal popolo può essere limitato o condizionato senza infrangere il secondo capoverso dell’art. 1 della Costituzione? Le due domande sono retoriche, la risposta non può non essere no. Però è in corso da almeno trent’anni un processo che ha messo in moto un ridimensionamento del potere sovrano popolare ed una concentrazione di potere nelle mani dei vertici delle istituzioni – presidente della Repubblica e presidente del Consiglio – che servono a evitare di affrontare la congiunzione che da così lungo tempo in atto tra crisi del sistema politico e crisi del sistema previsto dalla Carta.

Tutto è cominciato all’inizio degli anni Novanta quando il potere dei partiti politici, e quindi del sistema politico, si è andato depauperando, ha dato spazio all’intervento di altre componenti del sistema istituzionale consentendo loro di essere forze sostitutive della politica. Non dimentichiamo che nel 1992 il presidente della Repubblica disse che che il parlamento, che è il luogo dell’esercizio della sovranità popolare, doveva scrivere sotto dettatura la legge elettorale; e poi sciolse le camere, che pure avevano una maggioranza politica e di governo mai venuta meno. Si fece una modifica nel potere locale, si passò dal primato della democrazia consiliare nei comuni e nelle regioni all’accentramento del potere del sindaco che diventò podestà, e nelle regioni fu ridotto il potere delle giunte e dei consigli e ci fu un forte accentramento del presidente, che non a torto infatti fu dalla voce popolare chiamato governatore.

Questo ha portato a evidenziare la necessità che la crisi del sistema politico era risolvibile attraverso una semplificazione del sistema politico, con una riduzione del potere dei partiti e delle istituzioni del sistema dei partiti, ed una accentuazione del potere dei vertici istituzionali. Questa situazione è esplosa in maniera grave con questa legislatura, quando ci siamo trovati di fronte a un effetto collaterale di un sistema non più organizzato che è stato sostituito da un sistema di organizzazione populistica del consenso intorno a motivazioni di carattere convincente, non di grandi visioni e di orizzonte.

Nell’interno del sistema istituzionale i poteri e le forze costitutive nelle istituzioni sono andate assumendo sempre più prima un carattere autonomo e corporativo di corpi che intervenivano direttamente nella politica, poi con una disgregazione interna degli stessi corpi istituzionali.

Due garanti

Quando il Partito radicale, un piccolo partito ma che nella storia della Repubblica italiana rappresenta una componente non trascurabile della coscienza critica della società, pone al presidente della Repubblica il problema del messaggio alle camere sulla crisi della giustizia e del Csm, la risposta semi ufficiosa è stata quella che non si deve interferire con la attività della magistratura, perché si stanno occupando del problema quattro procure. È come dire: vogliamo sapere che malattia ha il nostro corpo sociale e politico e si risponde che se ne sta occupando il malato.

Dobbiamo constatare che noi oggi abbiamo due posizioni al centro della crisi del sistema politico democratico parlamentare: la presidenza della Repubblica e quello del Consiglio. L’uno è garante dell’equilibrio costituzionale e quindi delle istituzioni, e l’altro del buon governo. Ma entrambi hanno problemi di calendario: l’uno è alla fine del settennato vuol evitare che ci sia un diluvio istituzionale nella coda del mandato, l’altro è stato incaricato di un compito riduttivo e speciale: risolvere la crisi sanitaria e varare il piano di rilancio.

Questo si esaurisce in pochi mesi. A ottobre o è fatto o il non fatto peserà sulla situazione generale. E che fare subito dopo? Può una personalità così quotata nel campo internazionale, che anche se si mostra modesto è molto carico di autostima, andare al Quirinale? Si pone un problema: la stabilità nei prossimi anni ha bisogno di un punto di stabilità, un punto sovrano. La Pdr che diventa il punto di stabilità e consente nello stabilire cosa è buono e cosa è male nelle riforme. E questo giudizio non può essere affidato al volere sovrano del popolo, perché il popolo non è tutta brava gente. La completa e totale sovranità affidata al popolo è un rischio.

Questa è una tentazione da sempre presente nella società italiana, che ha assunto caratteri vistosi dal 1992 e oggi se fossimo meschini soddisfatti delle vendette della storia, dovremmo dire come quel manipolo di giacobini tracotanti che alla tv in nome del potere rivoluzionario della magistratura stabilivano che l’Italia andava voltata come un calzino, adesso mestamente si trovano ad essere di fronte ad altri pezzi della magistratura che vanno a vedere i loro calzini.

Questo processo lento ma inesorabile è una restaurazione. E in Italia ha il carattere di una restaurazione pre-repubblicana. Cioè il sovrano diventa il re, buon galantuomo dispensatore di giudizi sani e saggi, e la democrazia deve essere docile. Insomma un poco di accettazione da parte del popolo dei caratteri propri dei sudditi e un poco di accettazione da parte del sistema democratico di avere un sovraordinato regolatore degli eventi non risolvibili dalle crisi e dalle emergenze.

Parlamento rinsecchito

Se tutto questo nei prossimi mesi non viene riportato nell’alveo naturale, la discussione nell’organo costituzionale della sovranità popolare che è il parlamento, e se questo non viene attivato dal garante della Costituzione, ci troveremo di fronte al rinsecchimento dei poteri del parlamento. E come si fa ad affrontare una crisi istituzionale non attraverso gli organi istituzionali ma nelle indiscrezioni dell’opinione pubblica, della stampa, dei giornali? Perché ciò che può essere divulgato da un giornalismo di inchiesta non può essere affrontato dagli organi istituzionali? È già questa un’autolimitazione della rappresentanza. Questa discussione deve avvenire in parlamento subito. Il piano di rilancio che lega investimenti alle riforme, ma già oggi ci spiegano che le riforme non potranno essere profonde, ma delle semplificazioni di superficie, che non intervengono sui meccanismi profondi delle disuguaglianze.

A settembre si vota elezioni di carattere politico totale. Da questo panorama uscirà una divaricazione fra il parlamento, il paese legale, rispetto al paese reale. Non sarà un sondaggio. In che clima si svolgerà la elezione del pdr? Sarà un clima torbido, dove già sono visibili non solo i giochi e gli intrighi fra gruppi, ma anche un ulteriore disgregarsi del sistema politico fuori del parlamento. Non è sottovalutabile che fra ottobre e novembre si svilupperà la campagna referendaria di un partito tradizionalmente legato ai referendum come i radicali, ma anche di un partito di governo come la Lega su temi cruciali come la giustizia.

Noi avremo uno stato di confusione in cui il parlamento non discute e nel paese avviene un dibattito politico. Insomma, il rifiuto di portare il dibattito sulla crisi istituzionale nel parlamento con un doveroso messaggio del garante della costituzione è ineludibile. Sfuggire a questo obbligo significa avventurarci verso situazioni totalmente imprevedibili, la restaurazione di una finta democrazia pre-repubblicana e una regressione totale. Su questa strada forse si troverà qualcuno che sarà preso dal desiderio di napoleoneggiare su una crisi delle istituzioni. Sicuramente non troveremo un popolo diventato libero, ma che accetta la regressione alla massa di sudditi.

 

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