Come funziona il voto

Domenica 20 e lunedì 21 settembre, tutti i cittadini maggiorenni potranno votare al referendum costituzionale sulla legge che riduce il numero dei parlamentari: da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori.

Si tratta di un referendum confermativo, il quesito è: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019”.

Votando sì, l’elettore si esprime a favore del taglio del numero dei parlamentari. Votando no, sceglie di abrogare la legge costituzionale.

Il referendum costituzionale non ha quorum, quindi non esiste una soglia minima di votanti da raggiungere perché la votazione sia valida. L’esito determinerà l’entrata o meno in vigore della legge a prescindere da quanti cittadini andranno alle urne.

La battaglia sul taglio dei parlamentari

La legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari è stata una delle bandiere politiche del Movimento 5 stelle. La sua approvazione faceva parte del “contratto di governo” siglato da Cinque Stelle e Lega alla nascita del governo Conte I, in seguito al voto del marzo 2018.

Il disegno di legge costituzionale è stato incardinato al Senato e, tra il febbraio 2019 e il maggio 2019, si è conclusa la prima lettura in entrambe le Camere, dove la legge è stata approvata con una maggioranza qualificata di due terzi.

La seconda lettura, invece, è avvenuta nel luglio 2019, pochi giorni prima dello strappo politico della Lega che ha determinato la fine del governo Conte I. Al Senato, la legge è stata approvata ma senza la maggioranza qualificata e questo ha aperto alla possibilità di sottoporla a referendum.

La Costituzione, infatti, prevede che una legge costituzionale possa essere oggetto di referendum confermativo nel caso in cui, in almeno uno dei quattro passaggi alle Camere, non sia stata approvata da una maggioranza di due terzi dei parlamentari.

Il governo Conte II, formato da una maggioranza composta da Movimento 5 stelle, Partito democratico e Leu, è nato nel settembre 2019, ma i grillini hanno vincolato il loro sostegno al premier alla garanzia che i nuovi alleati votassero il sì definitivo al taglio.

Nella prima lettura, infatti, Pd e Leu erano all’opposizione e avevano votato contro. Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha garantito l’appoggio al taglio dei parlamentari, ma lo ha vincolato all’approvazione in tempi veloci di una nuova legge elettorale e della modifica dei regolamenti di Camera e Senato.

Nell’ottobre 2019, quindi, la Camera ha approvato definitivamente la legge costituzionale con il sì quasi unanime e solo 14 voti contrari. Immediatamente, però, è partita la raccolta delle firme necessarie per proporre il referendum.

I promotori dell’iniziativa sono stati i senatori Tommaso Nannicini del Pd, Andrea Cangini e Nazario Pagano di Forza italia e il 10 gennaio 2020 hanno depositato in Cassazione le 71 firme di parlamentari necessarie per attivare l’iter referendario.

Tra i firmatari, figurano esponenti della maggior parte delle forze politiche presenti in Parlamento. L’unico a non aver contribuito con nemmeno una firma è il gruppo di Fratelli d’Italia.

Inizialmente, il referendum era stato fissato per il 29 marzo, ma l’emergenza Covid ha fatto slittare la data al 20 e 21 settembre. Per quanto riguarda le intenzioni di voto, il sondaggio più recente è stato elaborato a fine giugno da Ipsos per il Corriere della Sera. Secondo l’indagine, il sì è in vantaggio netto con il 46 per cento; il no è fermo al 10 per cento. Il fronte degli indecisi è molto ampio con il 24 per cento, mentre il 20 per cento è orientato per votare scheda bianca o non votare. È significativo, però, che solo il 28 per cento degli intervistati dice di essere a conoscenza che si terrà il referendum.

In alcune città e regioni si tratterà di un “election day”, perché gli elettori voteranno anche per il rinnovo dei consigli regionali di Veneto, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Campania e di molti consigli comunali, compresi alcuni capoluoghi di regione: Venezia, Trento e Aosta.

Quanto si risparmia?

Secondo il bilancio della Camera del triennio 2018-2020, indennità e rimborsi per 630 deputati costano ogni anno 144,9 milioni di euro. Dunque ogni anno lo stato spende 230 mila euro per ogni deputato. Riducendo di 230 eletti, il risparmio potenziale è di 52,9 milioni di euro l’anno, a fronte di una attuale spesa complessiva per il funzionamento della Camera dei deputati di 943 milioni di euro circa.

Al Senato, invece, il costo è di 249 mila euro l’anno per ogni senatore, dunque il risparmio con il taglio di 115 membri di Palazzo Madama è di circa 28,7 milioni di euro l’anno. Annualmente, il bilancio complessivo di Palazzo Madama ammonta a circa 540 milioni di euro.

Sempre stando ai bilanci, che comprendono tutte le voci di spesa per il funzionamento delle due camere, il taglio degli eletti permette di risparmiare il 5,5 per cento delle spese totali di Montecitorio e del 5,4 per cento di quelle di Palazzo Madama.

In totale, il risparmio effettivo annuo che si otterrà con la riduzione del numero dei parlamentari ammonta a circa 80 milioni di euro.

Come si modifica la rappresentanza?

Oggi il rapporto tra eletti nei due rami del Parlamento e cittadini – sono circa 60 milioni, secondo i dati del ministero dell’Interno – è in media di uno ogni 63 mila persone. Riducendo a 600 i parlamentari, il rapporto diminuisce a uno ogni 101 mila. In questo modo, secondo un dossier della Camera, il numero di deputati ogni 100 mila abitanti scende a 0,7: il numero più basso in Europa.

Cambierà anche la ripartizione sul territorio del numero di eletti. Rispetto a oggi, i parlamentari espressi da ciascuna regione si ridurranno in media di oltre di un terzo. Eccezioni fanno i casi di Basilicata e Umbria, dove i senatori vengono più che dimezzati e gli eletti nelle due regioni passano da 7 a 3.

L’elemento determinante per valutare l’impatto del taglio, però, sarà la nuova legge elettorale, che – secondo la bozza ancora ferma in commissione Affari costituzionali della Camera – dovrebbe eliminare tutti i collegi uninominali e suddividere tutto il territorio nazionale in collegi plurinominali, di dimensioni maggiori rispetto a quelli previsti ora.

Come si dividono i partiti

Considerando il quasi plebiscito dell’ultima lettura alla Camera, tutto l’arco parlamentare dovrebbe sostenere il sì. Invece, il progressivo complicarsi dei rapporti interni all’attuale maggioranza di governo sta modificando gli equilibri.

Il primo sostenitore del sì è il Movimento 5 stelle, che ha legato a questa legge la sorte di entrambi i governi di cui ha fatto parte. Le sue ragioni a sostengo della proposta di taglio sono due: riduzione dei costi delle camere e snellimento delle procedure legislative. “Oltre al risparmio, c'è anche una semplificazione delle leggi, perché con meno parlamentari avremo testi con meno emendamenti fatti solo per fare”, ha spiegato l’ex capo politico dei 5 Stelle, Luigi Di Maio.

Hanno annunciato il sì al referendum anche Lega e Fratelli d’Italia. Secondo Matteo Salvini, se la legge venisse approvata ma fossero gli attuali parlamentari in sovrannumero a eleggere il presidente della Repubblica, “sarebbe una lesione della democrazia”. Ecco perché, proprio per destabilizzare il governo e poter chiedere nuove elezioni, nove delle firme necessarie per presentare il referendum sono state di senatori della Lega.

Forza Italia, invece, è divisa al suo interno: 42 firme per il referendum appartengono al partito di Silvio Berlusconi e due dei promotori sono senatori di FI. La corrente che fa capo a Mara Carfagna, tuttavia, si è schierata sul fronte opposto. La stessa Carfagna ha definito questo “un referendum salva-poltrone”, e ricordato come “già nel 2005, il taglio dei parlamentari era il perno dell'aggiornamento costituzionale da noi promosso”.

Per il no sono Sinistra italiana, + Europa, il Partito socialista e Azione. Sulla linea del no dovrebbe convergere anche Italia viva, che al momento del voto dell’ottobre 2019 si è espressa per il sì alla legge, ma solo “per lealtà a questa maggioranza”, come ha detto il deputato Roberto Giachetti, tra i primi a firmare per il referendum e che ha definito la legge “un tributo alla fabbrica dell’antipolitica”.

Più complessa è la posizione del Partito democratico. Pur manifestando riserve, aveva votato sì al taglio ma aveva chiesto garanzie per l’approvazione della nuova legge elettorale. Proprio questo passaggio, tuttavia, è rimasto inchiodato in commissione a causa delle manovre di Italia viva.

Nonostante i tentativi di Nicola Zingaretti, difficilmente il testo del Brescellum potrà venire approvato almeno alla Camera prima del referendum. “Aver impedito l’intesa è un fatto molto grave che indebolisce le ragioni del taglio dei parlamentari”, ha detto l’eurodeputato del Pd, Goffredo Bettini, considerato l’ideologo del segretario, “Senza legge elettorale, il sì al referendum è pericoloso”.

La voglia di orientarsi verso no sta aumentando anche tra parlamentari dem – soprattutto quelli provenienti dalle regioni più penalizzate – che hanno già organizzato un comitato. La linea che ormai si è fatta strada nel Pd è quella di un disimpegno del partito sul tema referendario: “Zingaretti lascerà libertà di coscienza”, dice un deputato della corrente del segretario, “del resto, il nostro sì in Parlamento dopo tre voti contrari era arrivato solo per salvare il governo Conte II”. Con il rischio che questa divisione nella maggioranza provochi conseguenze per la tenuta proprio di quello stesso governo che il sì del Pd era servito a far nascere.

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