La discussione sul finanziamento dell’attività politica si è finalmente riaperta. Su Domani Emanuele Felice ha recentemente proposto di abbandonare l’attuale sistema, che dipende da contributi volontari tramite le dichiarazioni dei redditi, per tornare al finanziamento pubblico diretto dei partiti politici, legandolo a requisiti sulla loro democrazia interna. Qui vorrei spiegare le ragioni del mio consenso a questa idea e aggiungerle qualcosa.

Il furore contro i partiti, durato oltre un trentennio, è stata una campagna ‘populista’ con esiti elitari. Perché solo organizzazioni come i partiti politici sono in grado di coordinare gli interessi e le aspirazioni della generalità dei cittadini: senza di essi il problema dell’azione collettiva è, di fatto, insuperabile. E in queste condizioni l’interesse generale tenderà a cedere agli interessi particolari organizzati: alle élite, tipicamente, e tra esse soprattutto alle élite economiche, che in Italia controllano larga parte dei media.

Già questo può bastare a giustificare la tesi secondo la quale esiste un forte interesse pubblico all’esistenza di un adeguato finanziamento ai partiti, capace di permettere loro di svolgere questa cruciale funzione di elaborare e coordinare le domande aspirazioni e idee presenti nella società, per proporle agli elettori e portarle alle autorità pubbliche quale guida della loro azione. Ma in Italia esiste un altro argomento, altrettanto forte.

«Esangui, timorosi degli elettori, privi di cultura politica, instabili, inclini più a colludere che a competere, abbracciati allo Stato, vulnerabili alle minoranze organizzate»: così ho descritto i partiti contemporanei in un libro recente, nel quale sostengo che la loro debolezza è una delle cause del declino del Paese. Non è forse la principale; opera in congiunzione con altre, come l’inadeguatezza del dibattuto pubblico; e ha radici profonde, che a mio parere affondano nella debolezza della responsabilità politica e della supremazia della legge, da un lato, e dalla peculiare evoluzione dell’industrializzazione e della democratizzazione della penisola, dall’altro. Ma dubito che altre grandi democrazie occidentali abbiamo più della nostra bisogno di partiti migliori di quelli attuali.

Il lavoro dei partiti

Tornare al finanziamento pubblico diretto, legandolo a ragionevoli requisiti sulla democrazia interna dei partiti, potrebbe spingere i partiti a riprendere il lavoro che svolsero nei primi decenni della vita della Repubblica, e li renderebbe meno vulnerabili alle pressioni delle élite economiche e degli interessi particolari organizzati.

Ma per meglio riflettere la doppia natura della loro funzione essenziale – formulare programmi politici, da un lato, e proporli a elettori e autorità in concorrenza con quelli degli altri partiti, dall’altro – mi parrebbe utile scindere il finanziamento in due parti, legate a requisiti parzialmente autonomi.

A fianco del finanziamento generale dell’attività dei partiti, legato alla loro democrazia interna, dovrebbe esistere anche un finanziamento dell’attività di analisi della società, in funzione dell’elaborazione di idee.

La politica, del resto, è anche l’arte di intendersi pacificamente su ciò che è, e non solo su ciò che dovrebbe essere. E solo idee che muovano da un’analisi plausibile della società – ossia da un serio esame di ciò che le scienze sociali e tutta la letteratura ci dicono sulla società – possono pretendere di cambiarla, o di suscitare un consenso stabile sui programmi che ne scaturiscono.

Che sia svolta dentro i partiti o in fondazioni a essi legate, questa attività di ricerca e riflessione dovrebbe essere egualmente finanziata dal denaro pubblico: sia per l’ovvio interesse generale ad avere programmi politici fondati su analisi riconoscibili, sia perché la presenza di simili analisi dietro i manifesti elettorali contribuirebbe a migliorare il dibattito pubblico, e potrebbe gradualmente indurre i partiti a competere soprattutto sulle idee.

Non mi nascondo la difficoltà di definire criteri di finanziamento, sia dei partiti sia delle loro attività di ricerca, che siano al contempo sufficientemente stringenti da perseguire questi obiettivi (democrazia interna, seria analisi della società), ma sufficientemente larghi da non limitare la libertà dei cittadini di organizzarsi autonomamente per fare attività politica.

Ma l’obiezione non è decisiva: il sistema di finanziamento pubblico potrebbe essere opzionale, lasciando liberi i piccoli contributi volontari (ma non detassati).

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