Oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. In un suo celebre spettacolo, Giorgio Gaber ironizzava così sulla prospettiva di fare la rivoluzione. Una dilazione continua che faceva trasparire l’effettiva volontà di non cambiare nulla, perché alla fine si stava bene così.

Proprio come accade per una piccola-grande rivoluzione, che non sarebbe di sistema ma che avrebbe un impatto sulla qualità della legislazione in Italia: la normativa per regolamentare la rappresentanza di interessi, ossia chi svolge attività di lobbying.

Uno scatto in avanti per favorire la trasparenza. Peccato che il progetto non sembra rientrare nell’orizzonte della cose da fare con urgenza. Di certo non interessa i leader dei partiti della maggioranza, che hanno affidato il dossier al buon cuore di qualche volenteroso. Ma senza una benedizione politica e confermando il trend delle precedenti legislature: né Giorgia Meloni né tantomeno Matteo Salvini hanno sposato questa causa.

Influenze e lobby

Eppure l’accelerazione sarebbe ancora più necessaria dopo l’annuncio della riforma della giustizia. «È paradossale che con la riforma Nordio si pensi di riformare il traffico di influenze illecite, che definisce cosa è patologico nel rapporto tra stakeholder e decisori pubblici, senza aver mai definito cosa è invece legittimo», dice Federico Anghelè, direttore di The good lobby, organizzazione che ha avviato da mesi una campagna sulla regolamentazione della rappresentanza di interessi. 

Nella furia iconoclasta anti pm, insomma, il governo Meloni rischia di aumentare il livello di opacità, cancellando il discrimine tra la lecita azione di lobbying e l’illegalità, propendendo per quel sottobosco di faccendieri e, talvolta, ex parlamentari che si reinventano lobbisti.

Il tutto a danno delle società di rappresentanza di interessi, che ormai da decenni si sgolano, inutilmente, per chiedere una normativa. I fatti, come i numeri, hanno la testa dura.

In parlamento non esistono testi presentati da esponenti della maggioranza, nemmeno come iniziativa personale. Otto le proposte, tra Camera e Senato, ma tutte firmate da rappresentanti delle opposizioni. Il Movimento 5 Stelle ha rilanciato la propria battaglia con il capogruppo a Montecitorio, Francesco Silvestri, e la vicepresidente del Senato, Mariolina Castellone, mentre il Pd ne ha depositate altre due con i senatori Valeria Valente e Antonio Misiani (l’ultima in ordine cronologico). 

Camera ferma

Nel frattempo si è mosso qualcosa negli uffici di Montecitorio che ha fatto pensare – almeno per qualche settimana – all’intenzione di attivarsi realmente. È stata annunciata e avviata, a marzo, un’indagine conoscitiva in commissione Affari costituzionali, sotto la spinta di Nazario Pagano deputato di Forza Italia e presidente della commissione.

L’intenzione sembrava quello di accelerare. Certo, qualche dubbio è sorto sullo strumento dell’indagine. Nella precedente legislatura c’era un testo già approvato dalla Camera e che necessitava solo del passaggio al Senato. Una base di partenza che però la maggioranza di centrodestra ha ignorato, nonostante l’invito degli addetti ai lavori di ripartire da dove era stato interrotto il cammino.

Alimentando la sensazione di non voler davvero mettere mano alla questione, in nome della vecchia strategia di fare un finto passo avanti, che è in realtà un doppio passo indietro.

Pagano ci teneva comunque a dimostrare le buone intenzioni e nella proposta di programma dell’indagine aveva fissato la scadenza informale a fine giugno. Ma l’indagine si è persa per strada, finita nelle nebbie dei lavori parlamentari.

Da marzo ci sono stati tre cicli di audizioni fino a inizio maggio. Poi per due mesi è stata ferma, sparita dai radar. «È ferma unicamente per l’intasamento di diversi decreti», fanno sapere da Montecitorio, anche se in realtà in settimana era stato previsto un altro ciclo di audizioni, poi sconvocato.

Per chi conosce le dinamiche in parlamento non si tratta di una sorpresa: la commissione Affari costituzionali è una delle più intasate, crocevia dei provvedimenti più importanti. Così se ne riparlerà, nella migliore delle ipotesi, a settembre dopo la pausa estiva, confermando che l’indagine conoscitiva sta diventando più un freno che una soluzione.

Il nuovo limite per la fine dei lavori è stato indicato a novembre, a dicembre dovrebbe vedere la luce il testo base. Resta da valutare se sarà rispettato: il parlamento, in quei mesi, sarà in piena sessione di bilancio.

L’unico meccanismo a non essersi inceppato è il tavolo dei saggi, voluto da Pagano con il segretario organizzativo Davide Ambroselli, consulente legislativo del presidente della commissione. Sono stati previsti tre sottogruppi per un totale di venti esperti, tra docenti e lobbisti, «di tutte le appartenenze», specifica a Domani Ambroselli per esorcizzare l’ipotesi che si tratti di un’iniziativa della sola maggioranza.

A questo tavolo si lavora alla preparazione di una bozza, che dovrebbe essere pronta entro luglio, quindi limata nelle settimane successive e firmata da Pagano non appena disponibile la versione definitiva. Un percorso parallelo all’indagine, che aumenta le perplessità. Dopo nove mesi il bilancio sulla legge per regolamentare le lobby, infatti, non è positivo, in linea con le precedenti legislature.

La richiesta dei lobbisti

Non è servita nemmeno la sveglia suonata dalla Commissione europea. Nel suo rapporto annuale sullo stato di diritto negli stati membri, presentato recentemente, Bruxelles ha sottolineato l’urgenza e la necessità di avere normative chiare sulle attività di lobbying.

Nello specifico sulla rappresentanza di interessi l’Ue ha ribadito che, fino a che non ci sarà un registro della trasparenza unico e obbligatorio, non si potrà parlare di un quadro normativo efficace. «La Commissione europea si è espressa con chiarezza. L’Italia deve dotarsi di una disciplina organica sul lobbying, introducendo l’impronta legislativa che renda pubblico chi ha contribuito ai provvedimenti normativi», osserva ancora Anghelè.

E arriva così una denuncia, che si lega all’attualità politica: «La lacuna va colmata al più presto perché, con il Pnrr è diventata una voragine, che ha reso sporadica e ineguale la partecipazione degli stakeholder ai processi decisionali. Negando ogni forma di trasparenza sugli stessi».

Un contesto che non piace agli stessi lobbisti. Le società di rappresentanza di interessi sono favorevoli a una regolamentazione così da scongiurare la concorrenza sleale di figure più simili a faccendieri. Ci sono realtà che rischiano di essere danneggiate da chi entra ed esce con facilità dagli uffici parlamentari, come ex deputati ed ex senatori – ma non solo – che hanno accesso illimitato ai palazzi istituzionali, agendo come lobbisti sotto mentite spoglie.

«Spesso inficiano pure la reputazione di questa professione», raccontano gli addetti del settore. L’obiettivo minimo è quello di garantire un accesso regolamentato in parlamento e nelle sedi istituzionali dove siedono i decisori pubblici.

Un pass che li renda riconoscibili e consenta di agire in piena trasparenza. «Il tesserino in dotazione oggi è inutile», è il mantra che circola tra gli addetti ai lavori, che ragionano sul piano «della trasparenza che facilita chi vuole fare questo lavoro in maniera seria».
A Montecitorio è stato istituito un registro, per volere dell’allora presidente Roberto Fico che aveva ereditato l’idea da Laura Boldrini, ma è di fatto una scatola vuota.
La regolamentazione è stata pensata male e scritta peggio. Mancano, tra le tante cose, gli adeguati spazi per gli incontri con i deputati. Al Senato va ancora peggio: nessuno si è mai interessato della vicenda. Vige una sorta di far west, in cui ognuno fa ciò che vuole. E di questo passo sarà così ancora per molto.

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