La giostra ha ripreso a girare. Sono quarant’anni che ci si trastulla con la “grande riforma” della Costituzione. Eppure, dopo i molteplici fallimenti del passato, dovremmo essere vaccinati contro quello che Valerio Onida bollava criticamente come il «mito della grande riforma» a lungo velleitariamente coltivato. Suggerendo di applicarsi semmai a puntuali revisioni costituzionali. In conformità con il senso assegnato dai costituenti all’art. 138.

Che, ancora una volta, il treno non sia partito bene lo si ricava da varie circostanze: che l’iniziativa sia del governo e non del parlamento come raccomandava Calamandrei spesso citato a sproposito; che si proclami che non si esclude di procedere anche a colpi di maggioranza politica; che si sarebbe investiti di un mandato degli elettori (comunque una minoranza), come se la Costituzione fosse materia da programma di governo; che a dettare la linea sia un baratto politico tra FdI e Lega “presidenzialismo in cambio di autonomia differenziata” anziché una visione di sistema; che basti lo slogan accattivante di una “democrazia decidente” ricapitolata in un capo, considerando intercambiabili elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio; che si attribuisca alla Costituzione limiti e inadeguatezze ascrivibili piuttosto al sistema politico; che il primo dei problemi sia la stabilità dei governi e non altrettanto un vistoso deficit di rappresentanza dei partiti e del parlamento come attesta l’esorbitante astensionismo.

E potremmo continuare. Ma qui mi limito a un cenno critico circa la nebulosa sul metodo e sullo strumento cui affidare le riforme. Tutt’altro che indifferenti e ancora indefiniti. Di nuovo si parla di bicamerali e di comitati di esperti. Non abbiamo già dato? Vogliamo reiterare una patologica creatività che ha partorito in abbondanza pasticci, trappole, chiacchiere inconcludenti e tonnellate di carta per gli archivi?

Per la gioia di una legione di addetti ai lavori e costituzionalisti di nuova generazione più versati per onanistici tecnicismi che per solida cultura costituzionale. Fabbricatori di “cassette per gli attrezzi” disponibili a ogni uso e a servizio del potente di turno. Una sorta di “tradimento dei chierici” severamente denunciato da Gustavo Zagrebelsky. Il metodo non è meno importante del contenuto. Comunque vi è un nesso.

In un quadro tanto confuso e intossicato da interessi di parte è saggio ancorarsi fermamente alla lettera dell’art. 138, alla sua procedura garantista, per la quale la sede propria di ogni revisione è il parlamento. Tutte le altre vie magari non vengono dal demonio ma di sicuro conducono fuori strada.

Questione di metodo

Aveva visto giusto il vecchio costituente Giuseppe Dossetti quando, nel 1994, dopo l’insediamento del primo governo Berlusconi, rompendo un quarantennale riserbo monastico, sentì il dovere di levare la sua voce a difesa della Costituzione.

Qualcuno forse ricorderà la Commissione (per le riforme) Speroni (sic) e, sin da allora, la suggestione di un mix di secessionismo e di bonapartismo. Sembra che ci risiamo. Anche sul metodo, Dossetti fu netto: nessuna deroga all’art. 138, semmai innalzamento del quorum dopo l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria. Esattamente ciò che ha caldeggiato Rino Formica su queste pagine.

Di più: Dossetti contestava la pretesa di una maggioranza di governo contingente di vantare un «mandato costituente» quale quello di chi – è il caso presente – volesse riscrivere gran parte della Carta, il suo impianto, le sue garanzie. Esso esigerebbe un’assemblea parlamentare eletta con metodo proporzionale. E, con l’aria che tira, aggiungo io, meglio evitare. Vi pare che questi siano un tempo propizio e una classe politica all’altezza di un’impresa costituente?

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