Se, da un lato, i giovani e le giovani rischiano di disaffezionarsi alla politica, dall’altro – attraverso le minoranze attive – esprimono una notevole creatività nel linguaggio, negli strumenti, nelle pratiche di lotta. E alimentano la speranza contro quello che Ernst Bloch chiamava il «cattivo presente»
Il testo seguente è un estratto dal saggio introduttivo di Giorgia Serughetti al libro di Roberto Bertoni, Vent’anni. L’impegno politico di una nuova generazione partigiana, People, 2025.
«A vent'anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore». Nella canzone partigiana scritta da Italo Calvino, la «vita» e l’«amore» si trovano «oltre il ponte», oltre il «male» da sconfiggere per conquistare il futuro.
A otto decenni di distanza dalla Liberazione, quali ponti devono attraversare i ventenni in Italia, quando scelgono l’attivismo politico? Quando pensano che la propria libertà non finisca ma cominci dove comincia quella degli altri? Quando, insomma, pensano che essere liberi e libere sia prendere parte, partecipare?
Si partecipa per realizzare obiettivi specifici, ma anche per ridurre il senso di solitudine, incertezza, paura, spiega Francesco Raniolo nel libro La partecipazione politica (il Mulino, 2024). Partecipare è prendere parte, ma anche essere parte, appartenere a un soggetto collettivo. Grazie alla capacità di orientare a obiettivi, e insieme di offrire opportunità di appartenenza, la partecipazione apre «una breccia nel futuro», consentendo di guardarlo con speranza anziché con disperazione.
Sarebbe assai comprensibile essere presi dal disincanto, o dalla disperazione, guardando alla brusca inversione di rotta nell’approccio alla cura del pianeta che l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la deriva sovranista dell’Unione europea, le guerre per le risorse energetiche, la perdita di legittimazione delle Nazioni unite stanno imprimendo alla politica mondiale.
La difesa del clima
La seconda decade di questo millennio si era chiusa con le mobilitazioni giovanili di massa in difesa del clima, con le manifestazioni studentesche di Fridays for Future che sono arrivate a toccare oltre 150 paesi del mondo, con gli applausi per Greta Thunberg al parlamento europeo e al palazzo di vetro a New York.
Quella spinta era stata decisiva per indurre i governi dei paesi occidentali a prospettare piani di riduzione delle emissioni e di transizione ecologica, in linea con l’Accordo di Parigi del 2015.
Nel 2025, tuttavia, gli Stati Uniti di Trump sono usciti dall’Accordo, la nuova amministrazione ha rilanciato le trivellazioni per aumentare la disponibilità di energia fossile, l’impegno dell’Unione europea per il Green deal si è indebolito, e la necessità di prepararsi a nuove guerre su larga scala ha scalzato ogni altro obiettivo di benessere sociale e ambientale nell’ordine delle priorità.
Non solo, ma la legittimità del diritto internazionale è in piena crisi di fronte allo sterminio della popolazione di Gaza da parte dell’esercito israeliano, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Mentre la crescita di consenso elettorale per i partiti della destra radicale minaccia di travolgere, in molti Paesi, i traguardi faticosamente conquistati nell’ultimo mezzo secolo in materia di diritti delle donne, delle minoranze etniche, razziali, sessuali e di genere, di rifugiati e apolidi.
Il rischio dello sconforto
Come lottare per un altro mondo possibile, di fronte all’esibizione di potenza di una politica maschilista, classista, suprematista? Quali chance abbiamo di difendere i diritti, in quanto «leggi del più debole» che fondano la promessa dell’uguaglianza, se assistiamo alla continua legittimazione del potere del più forte? Come resistere alla brutalità, alla devastazione ambientale, al trionfo del cinismo e dell’indifferenza per le ingiustizie? Come sopravvivere alla sensazione di inefficacia dell’agire collettivo, alla sensazione che niente importi, che nessuna presa di parola o gesto sia capace di provocare un cambiamento? E all’azione repressiva di tanti governi verso le forme di protesta, specialmente giovanile?
Il rischio è lo sconforto, la sfiducia nel significato stesso della politica. Come coltivare, dunque, la speranza, risorsa indispensabile in ogni battaglia per la giustizia?
Se i giovani oggi sono spesso descritti come passivi, incapaci o non desiderosi di agire un conflitto contro il sistema di potere che minaccia il loro futuro, bisognerebbe osservare che il problema è trasversale alle generazioni. In realtà, in un tempo di crescita delle disuguaglianze e compressione dei diritti, di guerra condotta vittoriosamente dall’alto verso il basso, dall’élite dei super ricchi contro il ceto medio e la classe lavoratrice, è inevitabile domandarsi perché le vittime non si difendono: cosa è successo al conflitto, dal momento che i motivi non gli mancano?
Tecniche di prevenzione
Scrive il politologo Alfio Mastropaolo, nel suo Fare la guerra con altri mezzi (il Mulino, 2023), che la risposta a questa domanda è duplice. In primo luogo, se mancano imprenditori politici che incoraggino e organizzino la ribellione, questa risulta costosa e carica di rischi per i singoli, i quali sono piuttosto indotti a adattarsi e a trovare soluzioni individuali ai problemi collettivi. In secondo luogo, il neoliberalismo è stato ed è anche un progetto culturale, che ha addomesticato i modi di pensare, riscrivendo le categorie per definire le diseguaglianze e il disagio sociale.
Non sorprende che, in uno scenario simile, le generazioni più giovani finiscano per trasformare il dolore e la paura per i mali del mondo primariamente in malessere individuale.
Altre tecniche di prevenzione e riduzione del conflitto includono quella di mettere i gruppi in concorrenza tra loro (giovani contro anziani, nativi contro immigrati, precari contro occupati stabili…), squalificare le tecniche di lotta (per esempio lo sciopero), introdurre misure repressive (come i decreti sicurezza del governo Meloni, richiamati a più riprese dalle attiviste e attivisti intervistati). Le «vittime» delle disuguaglianze si allontanano così in larga parte dalla politica attiva, si rifugiano nell’astensione, in qualche caso affidano una speranza residua al voto per i partiti di protesta, quelli normalmente classificati come populisti.
«Resistenze dei disuguali»
Eppure, non è finito il tempo dei grandi sussulti collettivi: più sporadici, forse più effimeri, all’apparenza meno incisivi del passato, nel complesso capaci tuttavia di disegnare anche nel presente una mappa di «resistenze dei disuguali».
Appartengono a questa cartografia le esperienze di lotta di giovani donne e uomini in Italia. Esperienze che non di rado raccolgono e attualizzano il lascito di idee e pratiche che proviene dai movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, o dalle proteste anti-globalizzazione degli anni a cavallo del millennio.
Si pensi al ritorno in forze del femminismo con Ni Una Menos, dall’Argentina al Nord globale, alle proteste di Black Lives Matter contro il razzismo sistemico e la violenza delle forze dell’ordine, ai già citati nuovi movimenti ambientalisti, al pacifismo, alle mobilitazioni per la Palestina, ma anche alle molte forme di sperimentazione democratica, mutualismo, imprese recuperate dai lavoratori, difesa di beni comuni, forme di solidarietà verso migranti e rifugiati.
Se, da un lato, i giovani e le giovani rischiano di disaffezionarsi alla politica in un tempo gravato dalla percezione di assenza di futuro, dall’altro – attraverso le minoranze attive – esprimono una notevole creatività nel linguaggio, negli strumenti, nelle pratiche di lotta. Segnalano inoltre il desiderio di una politica che parli di solidarietà, responsabilità collettiva, uguaglianza. E alimentano la speranza contro quello che Ernst Bloch chiamava il «cattivo presente».
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