Un giorno uno strappo, un giorno la toppa, il giorno dopo un altro strappo. Nell’interminabile andirivieni delle opposizioni, martedì è stato il giorno dell’ognun per sé sulle risoluzioni in appoggio a Israele. Mercoledì quello di nuove convergenze: tutte le opposizioni hanno votato contro lo scostamento di bilancio e contro la Nadef.

E al Senato si sono imbufalite con il governo perché non ha dato il tempo alla commissione Affari europei di esprimere il suo parere. «Decisione consensuale», minimizza il presidente della commissione Giulio Terzi di Sant’Agata (FdI) perché quel parere era «superato dalla commissione di merito che aveva già concluso l’esame», «il voto sarebbe stato una specie di messa in scena ridicola».

Vecchi conti fra Iv e M5s

Parole sprezzanti, il capogruppo Pd Francesco Boccia fa un’arringa sulla centralità del parlamento. Ma parte un siparietto tutto interno alle opposizioni: Enrico Borghi, di Italia viva, pizzica i Cinque stelle e se la prende con la diminuzione dei parlamentari che «sta creando difficoltà ai lavori».

Replica irritata Alessandra Maiorino: «Ricordo che la riduzione del numero dei parlamentari è stata votata da tutti», casomai il problema è «un costume ormai ingestibile rispetto alla decretazione di urgenza». Qui entra in scena +Europa. Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova convocano una conferenza stampa e chiedono a tutte le opposizioni di «andare insieme il 22 ottobre, a un anno dall’insediamento del governo Meloni, al Colle per sottoporre al presidente Mattarella l’allarme sul ricorso alla decretazione d’urgenza e il ricorso sistematico alla fiducia». Questo malcostume non è un’esclusiva della destra, ma qui si esagera, dicono i due. Alla gita al Colle tutti hanno detto sì, manca solo l’adesione del terzo polo.

Sono le scene di quotidiane liti e tregue, di tira e molla, di gelosie e ripicche per le primogeniture delle iniziative. Che hanno un solo effetto: quello di una seduta in beauty farm per la maggioranza. E hanno una sola causa: i sondaggi che, in vista delle europee, mettono in apprensione i partiti. Le ultime rilevazioni, per esempio, non sono lusinghiere per il Pd di Elly Schlein. Ed è un guaio perché la missione dichiarata della sua segreteria è recuperare voti dall’astensione, e quella non dichiarata è ridimensionare il M5s. Al momento non succede.

Né la sua vocazione coalizionista trova corrispondenze di amorosi sensi in Giuseppe Conte, che l’altro giorno ha sbottato, la formula «campo largo» gli fa venire «l’orticaria». Schlein invece non deflette dalla linea unitaria. Fino a sfidare l’evidenza, come martedì notte alla sua prima apparizione a Porta a porta: «Ci vogliamo tutti bene e ci rispettiamo come potenziali alleati».

Le mozioni su Israele

In realtà la fatica è tanta. Lo si è visto proprio martedì mattina sulle risoluzioni su Israele: quando è stato chiaro che palazzo Chigi non voleva una risoluzione unitaria del parlamento, era l’occasione buona perché le opposizioni ne facessero una tutte insieme.

«In realtà l’occasione sprecata è quella della maggioranza e di Giorgia Meloni», sostiene il responsabile Esteri del Pd, Peppe Provenzano, «avrebbe potuto vantarsi di avere l’appoggio dell’intero parlamento sulla posizione dell’Italia accanto a Israele e per la dura condanna dei terroristi di Hamas. Era un gol a porta vuota. Tanto più che c’era la disponibilità del ministro degli Esteri Tajani. O forse proprio per questo palazzo Chigi ha detto no». Il veleno è in coda, racconta dello stato dell’unione della maggioranza.

Però a quel punto neanche le opposizioni si sono volute affiatare: Iv si è ricompattata con Azione, a patto di non votare con gli altri. Condizione che si spiega con il recente ri-corteggiamento di Renzi verso Calenda. Il suo “Centro” ha perso Letizia Moratti e Cateno De Luca e scarseggia di futuro. Quelli di +Europa a dieci minuti dalla scadenza del termine si sono spazientiti, e hanno depositato la propria. Pd, M5s e rossoverdi hanno faticato fino alla fine per mettersi insieme, trattando su ogni singola parola.

Per esempio non è stato facile far capire a Giuseppe Conte che la sua impuntatura sulla richiesta di «una reazione proporzionata» da parte di Israele contro Hamas era un formula che non diceva molto. O peggio, vista la carneficina effettuata dai terroristi, rischiava di evocare la legge del taglione. Altro è «il diritto di esistere e difendersi nel rispetto del diritto internazionale e comunitario», l’espressione che poi è finita nel testo definitivo.

Salario, la battaglia al Cnel

Insomma il lavoro comune delle opposizioni è diventato un brillante futuro dietro le spalle. La proposta sul salario minimo, che doveva varare anche un metodo per riunire ciò che il voto del 25 settembre ha diviso, resta un’unicum, la rondine che non ha fatto primavera. Lì però qualcosa si muove: oggi il Cnel licenzierà il suo parere, certo il no dei rappresentanti di Cgil e Uil.

Cinque consiglieri degli otto in quota Colle annunciano un emendamento per «l’introduzione temporanea di una tariffa retributiva minima in via sperimentale» per alcuni settori. Giovedì il presidente Renato Brunetta consegnerà il papiello a Meloni. Martedì 17 la discussione tornerà in aula, e le opposizioni (tranne Iv) torneranno alla carica, forti anche delle centinaia di migliaia di firme raccolte durante l’estate.

Invece del famoso tavolo sulla sanità si è ormai persa ogni traccia. «Avevamo chiesto al governo un impegno sulla Sanità pubblica ma non c’è stato. Continueremo la nostra battaglia», ha detto ieri Schlein. Ma la dem Marina Sereni, cui spettava il compito di riunire questo tavolo, ormai ne parla in termini di «speranza».

Di Conte non si hanno più notizie. Tranne quella della sua partecipazione alla manifestazione indetta dal Pd il prossimo 11 novembre a Roma: una presenza che sarà raccontata come un gesto di vicinanza, o riavvicinamento. In realtà sarà solo la restituzione di una cortesia. Lo scorso giugno Schlein ha partecipato al corteo M5s. Che poi non era neanche andata così: è «passata in piazza per un saluto».

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