I gruppi parlamentari di «costruttori» non arrivano. Ed è difficile che arrivino prima del voto delle camere sulla relazione sulla giustizia, mercoledì. Ieri una nuova giornata di passione per i cacciatori di «responsabili»: se le cose andranno avanti così Giuseppe Conte andrà a sbattere. Al Senato non ci sono i voti: avallare l’operato del ministro Alfonso Bonafede, bestia nera di tutti i garantisti – veri, falsi e a targhe alterne – è un battesimo inaccettabile per qualsiasi forzista o renziano che volesse passare alla maggioranza. Dal Pd spiegano che potrebbero sfangarla con qualche malattia diplomatica e qualche astensione. Ma si rischia.

Bruno Tabacci, «costruttore» alla Camera ma consapevole della palude di palazzo Madama, ieri è andato a parlare con Luigi Di Maio. «Mercoledì è una prova di fuoco e si vedrà quali sono le vere intenzioni», «la possibilità di rafforzare la maggioranza c’è, ma serve un governo nuovo, non basta un piccolo rimpasto». Conte è «l’unico punto di equilibrio di questa legislatura», concede, a condizione che passi per le dimissioni.

L’ipotesi dimissioni

Dimissioni: parola che fin qui il premier non vuole sentire pronunciare. Ma se non si rassegna a fare un nuovo governo, non ha posti da offrire. «Non abbiamo cammelli», si è sfogato qualche giorno fa un viceministro dem.

Ecco perché i nuovi gruppi non decollano. Nella maggioranza si sono divisi i compiti: il Pd va a caccia dentro Italia viva, direttamente e attraverso Raffaele Fantetti, ex forzista e ora al Maie, fra i fondatori di «Italia 23». Fra i senatori renziani in bilico ci sono Mauro Marino, Leonardo Grimani, Eugenio Comincini, Annamaria Parente. Discorso a parte per Nencini, che ha votato sì alla fiducia di martedì e che tratta direttamente con Conte. Palazzo Chigi invece si dedica allo scouting in Forza Italia. Hanno già votato per Conte Maria Rosaria Rossi e Andrea Causin, ma secondo Tabacci c’è «un’area liberaldemocratica» che non può uscire allo scoperto finché Conte non fa un gesto.

Palazzo Chigi aveva assicurato agli alleati – ma anche al Colle – di avere già questi senatori in tasca. Quattro da Iv, quattro da FI e affini che, uniti ai cinque del Maie avrebbero costituito un gruppo. L’incidente giudiziario incorso a Lorenzo Cesa, ormai ex segretario Udc, potrebbe avvicinare due dei suoi tre senatori alla maggioranza. Ma Silvio Berlusconi fin qui ha detto no a quelli che gli hanno chiesto «consiglio». Conte è rimasto appeso all’ex cavaliere.

La situazione si è incartata. Tabacci ha messo sul tavolo la questione delle dimissioni di Conte. Per un «Conte ter», naturalmente. Ma la crisi che si apre formalmente – fin qui non lo è stata – non si sa mai come finisce. E il premier ormai non si fida più di nessuno.

Il voto di mercoledì spaventa la maggioranza, il rischio di scivolare nel voto c’è, anche se nessuno lo vuole davvero. Al capo dello stato Giorgia Meloni ha spiegato che «questo parlamento non è in grado di affrontare la crisi». La replica del deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti: «di fronte a queste derive estremiste meditino tutti coloro che hanno il dovere di ricomporre presto e bene la maggioranza europeista che esiste in parlamento».

E qui arriviamo a Matteo Renzi. Ieri dal Pd e dai Cinque stelle è arrivata una – curiosa – nuova grandinata di «mai più con Renzi». Il capo politico M5s Vito Crimi ha avvertito i suoi dissidenti: «La porta è definitivamente chiusa». Ma la paura di votare dà coraggio a qualche grillino convinto di restare a piedi al prossimo giro: «Riapriamo il dialogo con i renziani», chiede il deputato Giorgio Trizzino, rilanciato da Beppe Grillo. Anche nel Pd qualcosa scricchiola. La linea del segretario Nicola Zingaretti, dell’area di Orlando e di Provenzano e di Goffredo Bettini è «o responsabili o voto». Ma ieri quattro senatori (Gianni Pittella, Dario Stefano, Tommaso Nannicini, e Francesco Verducci) in nome della crisi sanitaria ed economica hanno chiesto che non ci sia «nessun ammiccamento diretto o indiretto alle elezioni anticipate». Per questo impiccarsi al no a Renzi è pericoloso. I quattro non sono soli. Lunedì sera alla riunione dei senatori dem sono stati in molti a esprimersi per il no al voto: quelli che fanno capo al ministro Lorenzo Guerini, e a Dario Franceschini, come Franco Mirabelli. Era andata nella stessa maniera il giorno prima, alla riunione dei deputati. Sembra un remake dell’estate 2019: il segretario pronto al voto, i gruppi parlamentari no.

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