Dal 20 settembre in Italia sono state somministrate circa 250 mila terze dosi dei vaccini anti Covid-19, principalmente quello prodotto da Pfizer-BioNTech. Destinate inizialmente a un gruppo di 900 mila persone con sistemi immunitari deboli, sono state poi estese alle persone sopra gli 80 anni e agli ospiti delle RSA, circa 5 milioni di persone.

Successivamente sarà il turno di operatori sanitari e sociosanitari e, secondo la circolare pubblicata l’8 ottobre dal ministero della Salute, di tutta la popolazione sopra i 60 anni. Ma c’è una differenza tra gli obiettivi che queste somministrazioni perseguono.

Chi è a rischio

Il primo gruppo è composto da chi ha difetti congeniti del sistema immunitario, persone che hanno o hanno appena finito di curare tumori solidi o del sangue, coloro che hanno ricevuto un trapianto di organo o che assumono farmaci corticosteroidi o immunosoppressori per gestire malattie autoimmuni, persone in dialisi, persone con virus dell’HIV e conta dei linfociti T sotto una certa soglia.

Per loro, la speranza è che la terza dose, somministrata a distanza di 28 giorni dalla seconda, stimoli la risposta immunitaria che le prime due dosi non sono state in grado di suscitare. Nel secondo gruppo, che riceverà il richiamo ad almeno 6 mesi dalla seconda dose, l’obiettivo è ripristinare la protezione che potrebbe essere diminuita.

Mentre “i sani” sono impegnati in dibattiti sulla insufficienza dei dati a disposizione su sicurezza ed efficacia dei vaccini, e ritengono che le decine di migliaia di persone coinvolte negli studi clinici siano insufficienti, i circa 900 mila cittadini che stanno ricevendo la terza dose in queste settimane, devono accontentarsi di molto meno.

Persone con le loro condizioni non sono state incluse negli studi clinici e quindi le stime dell’efficacia tanto delle prime due dosi quanto della terza si basano su studi che hanno coinvolto al più qualche centinaio di pazienti.

Le basi scientifiche 

Vials of the Pfizer COVID-19 vaccine sit on a tray at a vaccination center in Islamabad, Pakistan, Monday, Oct. 4, 2021. (AP Photo/Rahmat Gul)

Lunedì nel raccomandare la terza dose per le persone immunocompromesse, l’agenzia del farmaco europea EMA ha considerato due studi su pazienti con trapianto di organo solido che hanno coinvolto 101 e 120 pazienti rispettivamente, pubblicati all’inizio di agosto sulla rivista The New England Journal of Medicine.

Il primo studio è stato condotto in Francia, dove le autorità sanitarie avevano deciso già il 5 aprile che le persone con sistemi immunitari deboli dovessero ricevere una dose aggiuntiva. In Francia, a oggi, sono state somministrate circa un milione e 360 mila terze dosi.

Il secondo studio è stato realizzato in Canada e ha diviso i pazienti in due gruppi, a uno è stata somministrata una terza dose del vaccino a mRNA Spikevax, prodotto da Moderna, all’altro gruppo un placebo.

Trascorso un mese, i ricercatori hanno confrontato la quantità di anticorpi contro la proteina spike del SARS-CoV-2 presenti nel sangue dei partecipanti, la loro capacità di neutralizzazione e la presenza di linfociti T specifici per il virus.

Il gruppo che aveva ricevuto la terza dose ha mostrato una maggiore risposta in tutti e tre questi parametri. Circa il 50 per cento dei pazienti nel gruppo della terza dose aveva sviluppato un livello di anticorpi anti-spike sufficienti, mentre solo il 18 per cento nel gruppo che aveva ricevuto il placebo.

È importante osservare che per queste popolazioni particolari, si hanno a disposizione solo informazioni riguardo l’immunogenicità dei vaccini ma non riguardo l’efficacia verso l’infezione o le forme severe o letali della malattia. In altre parole non si può stimare di quanto i vaccini riducano il rischio di infettarsi e ammalarsi.

«Lo studio di efficacia sarebbe difficilissimo», commenta Paolo Corradini direttore del Dipartimento di Ematologia e Onco-ematologia pediatrica dell'Istituto Nazionale di Tumori a Milano «dei 300 pazienti con tumori del sangue che seguiamo dal momento della vaccinazione qui all’Istituto, nessuno si è ammalato. Questo accade prima di tutto perché sono stati vaccinati i familiari e i caregiver e poi grazie al rispetto delle misure di distanziamento sociale, in particolare l’uso delle mascherine».

La risposta immunitaria dei malati

Le persone che hanno un tumore del sangue o lo hanno avuto recentemente sono tra quelle che probabilmente reagiscono meno ai vaccini contro Covid-19 oltre ad avere un rischio aumentato di sviluppare forme gravi della malattia.

La loro risposta al vaccino è più debole anche rispetto a quella di pazienti con tumori solidi che, come hanno mostrato diversi studi presentati a settembre alla conferenza della European Society for Medical Oncology, sviluppano nel 93% dei casi una risposta immunitaria sufficiente dopo due dosi.

Tra i pazienti con neoplasie del sangue, invece, solo il 50% monta una risposta immunitaria ritenuta protettiva contro l’infezione, come mostrato da due studi, uno francese e uno statunitense che hanno coinvolto qualche centinaio di pazienti con diversi tipi di tumori ematologici.

Entrambi gli studi hanno osservato che essere stati sottoposti negli ultimi dodici mesi a terapie con anticorpi monoclonali diretti ai linfociti B, come accade per alcuni tipi aggressivi di linfoma e per la leucemia linfatica cronica, diminuisce la probabilità di rispondere in maniera soddisfacente al vaccino.

I linfociti B sono infatti responsabili della produzione degli anticorpi. Per quanto riguarda la distanza nel tempo dalla seconda dose «non abbiamo ancora dati chiari su quale sia l’intervallo migliore tra seconda e terza dose in queste popolazioni fragili», commenta Corradini «quindi dobbiamo basarci sugli studi nei pazienti che hanno ricevuto un trapianto, in cui la terza dose è stata somministrata a quattro settimane dalla seconda».

Chi ha difetti anticorpali

Tra le popolazioni meno numerose per cui viene raccomandata la somministrazione della terza dose c’è quella delle persone con difetti congeniti del sistema immunitario. La patologia più frequente in questo gruppo è quella con difetto anticorpale che ha un’incidenza di circa 1 ogni 25 mila nuovi nati.

«È un gruppo di pazienti estremamente eterogeneo e per alcuni di loro è molto difficile fare statistica», commenta Giovanna Fabio che coordina il centro di riferimento per la diagnosi e la cura delle immunodeficienze primitive dell’adulto e le sindromi autoinfiammatorie al Policlinico di Milano «il gruppo più grande è costituito dai pazienti con immunodeficienza comune variabile, in cui la maturazione e la funzionalità dei linfociti B è difettosa, e da quelli con agammaglobulinemia legata al cromosoma X, in cui i linfociti B sono del tutto assenti».

In uno studio pubblicato a luglio sul Journal of Allergy and Clinical Immunology, i ricercatori della rete italiana per le immunodeficienze primitive IPINet, hanno studiato 3200 pazienti, osservando un’incidenza minore rispetto a quella della popolazione generale e una letalità di poco superiore. «La minore incidenza è probabilmente dovuta al fatto che i nostri pazienti erano abituati a proteggersi già prima della pandemia e hanno evitato le situazioni a maggior rischio di contagio», commenta Fabio.

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«Riguardo ai decorsi clinici, le persone con deficit nella produzione di anticorpi, la maggior parte del nostro campione, reagiscono meglio alle infezioni virali rispetto a quelle causate da altri patogeni perché, pur producendo pochi anticorpi o non producendone affatto, possono sviluppare una risposta T cellulare soddisfacente », commenta la dottoressa Maria Carrabba, che coordina insieme a Fabio il centro di Milano, e aggiunge «anche i vaccini possono sollecitare questa risposta. Per questo noi consigliamo da tempo ai nostri pazienti i vaccini anti-influenzali, perché possono essere determinanti. Tuttavia, valutare la presenza di risposta cellulare richiede indagini più sofisticate rispetto ai test sierologici o di neutralizzazione e devono essere effettuate da laboratori specializzati».

In studi condotti nelle prime fasi della pandemia su un numero ristretto di soggetti, la letalità stimata per le persone con difetti congeniti dell’immunità era molto più alta rispetto a quella stimata da IPINet, ma «la graduale disponibilità di terapie efficaci ha fatto la differenza per i nostri pazienti, soprattutto gli anticorpi monoclonali, che in futuro potrebbero essere utilizzati anche per prevenire l’infezione», commenta Fabio.

La maggioranza dei pazienti del centro sono sottoposti a terapia sostitutiva con immunoglobuline estratte dal plasma dei donatori di sangue e somministrate per via endovenosa o sottocutanea. La terapia va somministrata periodicamente e a vita.

«Nei preparati di immunoglobuline non sono ancora presenti anticorpi contro SARS-CoV-2, ma nei prossimi mesi ci aspettiamo che accada perché derivati dal sangue dei donatori vaccinati o che sono guariti dall’infezione», spiega Carrabba «la speranza è che le persone ricomincino a donare il sangue al ritmo pre-pandemia. La protezione dei nostri pazienti passa anche da questo».

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