Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (art. 21). Questo principio liberale è inoppugnabile. Sicuramente, si accompagna all’assunzione piena della responsabilità di quello che ciascuno sceglie di dire, scrivere, diffondere.

Anche l’assunzione di responsabilità personale è un principio costitutivo del liberalismo. Chi parla, scrive, diffonde è consapevole che le sue espressioni potranno influenzare altri, spingerli all’emulazione.

Anzi, per lo più, vuole proprio dare diffusione più ampia possibile alle sue opinioni, talvolta, perché contrastano il sentire comune, da lui ritenuto sbagliato e pericoloso, talaltra, perché ritiene che le sue posizioni sono rappresentative di una minoranza, se non addirittura di una maggioranza silenziosa. A quelle donne e a quegli uomini, lui coraggiosamente, con grande sprezzo del pericolo, darà voce.

Tutto quello che ho scritto finora si attaglia direttamente al caso del Gen. Roberto Vannacci. Non c’è nulla di indiscutibile nel caso in sé e nelle moltissime reazioni, ma la discussione deve partire dalle fondamenta. Coloro che hanno cariche istituzionali (e anche politiche, non ho capito la distinzione fatta dal ministro Crosetto) portano indubbiamente maggiori responsabilità dei “semplici” cittadini.

Una questione di istituzioni

Quello che dicono e scrivono non soltanto raggiunge un uditorio più vasto, ma inevitabilmente si riflette anche sull’istituzione di cui fanno parte, nella quale godono di una posizione di rilievo.

Un generale, un alto magistrato, un professore universitario, tutte figure di funzionari pubblici, sono tenuti a sapere che esprimere in pubblico le loro opinioni politiche e sociali in qualche modo tocca l’immagine importantissima e, in qualche modo cruciale, può lederla, della loro imparzialità, della loro capacità e volontà di rappresentare, rispettare, esprimere, insegnare i valori della Costituzione. Nel caso in esame, quei valori di eguaglianza di fronte alla legge, di dignità sociale, di rispetto delle differenze, stanno tutti mirabilmente nell’articolo 3 della Costituzione italiana.

Nessun liberale e nessun democratico sosterrebbero che sui valori costituzionali è vietato nella maniera più assoluta discutere e che non è consentito auspicare e formulare alternative (nelle parole di Vannacci non c’erano alternative, ma anatemi). Però, i dipendenti e i funzionari dello stato hanno giurato sulla Costituzione, rispettarla e attuarla.

Qualora ritengano che i principi costituzionali e la loro traduzione in leggi siano incompatibili con le loro personali opinioni e valori hanno la facoltà di scegliere fra il silenzio (“obbedir tacendo”) oppure le dimissioni che aprono la strada alla pubblicizzazione di tutto quanto vorranno.

Le Forze Armate, la burocrazia, gli atenei non sono campi di competizione politica nei quali è accettabile una sorta di bipolarismo di nuovissimo conio fra i sostenitori della Costituzione e delle leggi vigenti e coloro che li sfidano in nome di valori contrari alla Costituzione a prescindere che siano oppure no condivisi da parte, da quanta parte, dell’elettorato (“il popolo è con me”).

Non spetta a un generale, a nessun generale farsi orgoglioso portatore in divisa di quei valori. Il compito politico spetta ai parlamentari.

La rivendicazione di responsabilità per quanto detto e scritto dal generale Vannacci dovrebbe essere altrettanto orgogliosa nella consapevolezza che qualsiasi conseguenza sul suo status e ruolo discenderà non da chi ha conculcato il suo diritto alla libertà di espressione, ma dal fatto di avere esercitato quel diritto in violazione dei suoi doveri istituzionali e professionali.

Altrove, nelle democrazie liberali, le dimissioni sarebbero considerate, non la premessa ad una candidatura parlamentare, ma un atto dovuto.

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