Una ragazza va in discoteca, beve qualche cocktail, sniffa un po’ di cocaina, saluta e bacia un amico che non vedeva da tempo, poi perde conoscenza e si risveglia a casa di lui. «Cosa è successo?», chiede lei. «Abbiamo fatto sesso. Prima l’hai fatto con me e poi con un altro ragazzo». 

Dopo quaranta giorni, la ragazza denuncia: «Ho subìto una violenza sessuale». Il padre del ragazzo accusato ribatte: «Ho la certezza che mio figlio non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante, di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni, e molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio».

È colpa sua

Ovviamente, avete capito a quale fatto di cronaca mi riferisco. La magistratura indagherà e la giustizia deciderà, ma qui non voglio parlare di questo. Voglio parlarvi delle nostre reazioni psicologiche e dei nostri pregiudizi di fronte a una violenza sessuale.

Ammettiamo per ipotesi che le cose siano andate come racconta la ragazza, voi cosa pensate? Pensate: «Se uno ha un rapporto sessuale contro il suo consenso allora ha subìto una violenza sessuale»? Da cui consegue che se qualcuno ha un rapporto sessuale con una persona che in quel momento non è in grado di dare il suo consenso, di ritirarlo anche avendolo dato in precedenza, di opporsi, di gridare o di lottare, allora commette uno stupro.

Oppure, voi pensate: «Quella ragazza non avrebbe dovuto drogarsi e non avrebbe dovuto bere». O anche: «L’ha baciato, quindi gli ha mandato messaggi ambigui». «Come mai non ha cercato di fermarlo?». «Perché non l’ha denunciato prima?». 

Se è così, voi pensate che quella ragazza sia responsabile del danno che ha subìto, e quindi state dando –in tutto o in parte – la colpa alla vittima. E questo accade spesso: colpevolizzano la vittima gli avvocati difensori che, nelle corti di giustizia, talora insinuano che la vittima abbia una qualche responsabilità dell’accaduto, ma anche i giornalisti sui mezzi di informazione, e spesso la gente comune che discute di questi fatti. Il famoso «se l’è cercata».

La scossa elettrica

La colpevolizzazione della vittima avviene ogni volta che qualcuno afferma in modo esplicito o sottinteso che una violenza sessuale è in tutto o in parte colpa di chi l’ha subita. E sapete perché lo fa? Per sentirsi meglio e più al sicuro.

Infatti, se noi riteniamo che la vittima di una violenza sessuale abbia fatto qualcosa di sbagliato e abbia qualche responsabilità per quel che le è accaduto, allora ci sentiamo più al sicuro perché così noi possiamo continuare a pensare: «A me una cosa del genere non accadrà mai perché io non comporterei mai così».

E non potrebbe capitare nulla di simile neanche ai nostri cari perché li abbiamo educati noi, e abbiamo insegnato loro a essere persone per bene.

I meccanismi della colpevolizzazione della vittima sono stati indagati per la prima volta in uno studio classico, condotto nel 1966 dai due psicologi americani Melvin Lerner e Carolyn Simmons.

I due ricercatori arruolarono 75 studentesse universitarie volontarie, e chiesero loro di partecipare ad un esperimento: dovevano osservare un assistente di laboratorio che sottoponeva a un test di memoria una donna cavia.

Ogni volta che la donna sbagliava la risposta, l’assistente la puniva somministrandole una forte scossa elettrica con elettrodi applicati sul cranio. In realtà, la donna era un’attrice complice degli scienziati, che sbagliava apposta le risposte e non riceveva affatto una scossa elettrica, ma fingeva solo.

Un mondo buono

Dapprincipio, le partecipanti, vedendo la vittima soffrire, rimasero sconvolte. Poi i ricercatori offrirono ad alcune delle volontarie la possibilità di intervenire sulla situazione della vittima: potevano decidere di stoppare le scosse elettriche quando la donna dava una risposta sbagliata, e di darle una ricompensa in denaro quando dava una risposta corretta.

Altre volontarie, invece, furono costrette a restare sedute immobili ad osservare la vittima che veniva ripetutamente colpita dalle scosse elettriche, senza poter fare nulla.

Alla fine, gli scienziati chiesero a tutte cosa pensassero della vittima, e i risultati furono sconcertanti: quelle che le avevano dato un premio pensavano che la vittima fosse una buona persona, mentre quelle che erano state costrette ad osservare impotenti la consideravano una persona cattiva che meritava di ricevere le scosse.

Gli autori dello studio conclusero che chi non poteva impedire che alla vittima accadessero “cose brutte” sentiva la necessità di considerarla una persona cattiva al fine di proteggere la sua convinzione profonda che il mondo fosse buono e giusto.

Io non sono come lui

Se pensi: «Le cose belle succedono solo a chi è buono, quelle brutte solo a chi è cattivo», allora ti convinci che chi è cattivo si merita quel che gli accade, e rimani meno impressionato dalle sue sofferenze.

Ma naturalmente trascuri il fatto che chi compie una violenza sessuale commette un crimine, infligge dolore ad un essere umano, ed è lui il colpevole. La colpevolizzazione della vittima serve come una forma di autoprotezione.

Se un individuo afferma: «Io non sono come quella persona e quelle brutte cose a me non accadranno» può continuare a credere che il mondo sia un luogo fondamentalmente buono e giusto dove solo a chi si comporta male capitano cose spiacevoli.

La colpevolizzazioni

Gli psicologi la chiamano proprio così: “Teoria del mondo buono e giusto”. Vari studi dimostrano che chi crede che il mondo sia buono e giusto più facilmente tende a colpevolizzare la vittima di una violenza sessuale.

Nel 2019, un gruppo di psicologi statunitensi, guidato da Caroline Bucher, ha preso in analisi tutti gli studi compiuti in passato sul fenomeno e li ha riassunti in articolo dal titolo “La colpevolizzazione della vittima”.

Questa ponderosa analisi dimostra che è più facile che colpevolizzino la vittima di uno stupro gli individui di tendenze politiche conservatrici, o che mostrano un atteggiamento di “sessismo benevolo”, cioè che hanno idee tradizionali e limitanti riguardo al ruolo e ai diritti delle donne – come chi pensa che le donne siano essere inferiori e abbiano bisogno della protezione da parte degli uomini. Anche cattolici e protestanti praticanti hanno la stessa tendenza a colpevolizzare la vittima.

Tutti costoro credono fermamente nel motto: «Se obbedisci alle regole nessuno ti farà del male». Inoltre, è più probabile che vengano colpevolizzate le vittime che al momento della violenza erano ubriache o drogate, o che indossavano abiti considerati provocanti o succinti.

Il mito dello stupro

Anche i media spesso dipingono le donne come oggetti sessuali, descrivono le aggressioni sessuali come un comportamento normativo («se l’è meritato»), eroticizzano la dominanza sessuale da parte del maschio, perpetuano il mito dello stupro – tutti atteggiamenti che legittimano la violenza sessuale e contribuiscono alla colpevolizzazione della vittima.

A causa di questa cultura, alle donne spesso viene detto che dovrebbero cambiare il loro comportamento, se vogliono evitare di essere assalite o stuprate. Alle donne viene detto ripetutamente che devono vestire in maniera meno provocante, che devono bere meno alcol e non devono ficcarsi in situazioni rischiose.

Questo aiuta a diffondere il falso convincimento che le vittime abbiano fatto qualcosa di sbagliato, e porta a sminuire le colpe di chi commette una violenza sessuale.

I dati

La colpevolizzazione della vittima ha conseguenze devastanti. La donna che ha subìto una violenza sessuale spesso ha paura di denunciarla, perché teme di essere incolpata e prova vergogna.

Inoltre, una donna che abbia subìto una violenza sessuale e sia stata colpevolizzata è più probabile che possa soffrire di ansia, di depressione o di disturbo da stress post-traumatico, e che infine tenti il suicidio, spesso riuscendo nell’intento.

Infine, è vero che le cose brutte succedono solo alle persone che sbagliano? No. Le statistiche dei vari paesi del mondo sono concordi: una donna su cinque subisce una violenza sessuale nel corso della sua vita, mentre solo un maschio ogni 75.

Se fosse vero l’assunto, ciò significherebbe che le donne sono molto più cattive degli uomini, il che è palesemente falso. Poi, va ricordato che nella stragrande maggioranza dei casi – tra il 70 ed il 90 per cento – una donna subisce una violenza sessuale da parte di un conoscente – che può essere un familiare come il padre, uno zio, un nonno o un cugino, oppure un amico – quasi sempre ritenuto buono e insospettabile.

Queste violenze sessuali, per mantenere l’onorabilità della famiglia e per il senso di vergogna della donna, non vengono denunciate praticamente mai. E no, le donne non se le cercano, le violenze sessuali.

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